Le melodie degli zampognari e la poesia di Dante, nella novena dell’Immacolata, ci ricordano che la vita è un cammino verso una meta, mentre prepariamo il cammino del presepe.
Il ventinove del mese di novembre era sempre stato un giorno speciale per Napoli e i Napoletani, risvegliati al mattino presto dalle melodie degli zampognari che si diffondevano per le strade ed i vicoli, entrando nei bassi, arrampicandosi su per le facciate dei palazzi, penetrando con i loro suoni acuti e gravi negli angoli più remoti delle case.
Chissà perché il suono delle zampogne, che preludia al momento più bello dell’anno, quando gli Angeli proclamano la “gloria di Dio nel più alto dei Cieli” e annunziano la “pace in terra per gli uomini di buona volontà”, è così malinconico e riempie l’animo di nostalgia.
“Nostalgia”: parola che, come al solito, viene dal greco antico: significa “dolore” (algos) per il “ritorno” (nostos): desiderio di ritornare a casa.
Ma dov’è la casa dell’uomo? Probabilmente in quel “giardino” (il Paradiso) da cui l’umanità fu scacciata nel suo primo rappresentante. L’avvenimento dei primordi che segna il destino di tutti i discendenti di Adamo.
E la storia primordiale si ripete per ogni singolo uomo: per ognuno di noi vi fu la cacciata da un paradiso, che non si è più stati in grado di riconquistare. La ricerca del “paradiso” è la ricerca del senso della vita.
Perché la vita sia un cammino verso una meta, come dice il padre Dante, e non un vagolare per una selva oscura, in andirivieni che non portano da nessuna parte.
Conoscere, amare e servire Dio in questa vita: è il senso dell’esistenza, nella concisa formulazione del catechismo di Pio X. Il resto viene da solo.
Le melodie degli zampognari sono così piene di nostalgia, forse perché fanno risalire dal profondo dell’animo umano la consapevolezza del tradimento nei confronti dell’unico vero scopo dell’esistenza, “immagini di ben seguendo false”: è ancora il padre Dante che ci mette in guardia. Tutto ciò che ci piace a questo mondo non è il bene, ma solo immagine del bene, pura ingannevole apparenza, da cui l’uomo si lascia tentare e sedurre.
Sono anni, ormai, che la mattina del ventinove del mese di novembre gli zampognari non risvegliano più i Napoletani.
Naturalmente, da un punto di vista socio-economico, dovrebbe essere un bene.
Le zampogne, infatti, erano legate a un’economia pastorale fatta di sacrificio e di povertà. Gli zampognari erano pastori, per lo più molisani o ciociari, che, spinti dal bisogno, venivano giù dai loro monti nelle città, andando di casa in casa a suonare la novena e a racimolare quel po’ di denaro che consentisse alle loro famiglie un Natale meno povero.
Nelle lunghe sere dell’inverno precedente, mentre le loro greggi riposavano nelle stalle, avevano intagliato dei lunghi cucchiai di legno, le “cucchiarelle”. Poi, nel mese di novembre venivano in città e si recavano presso le abitazioni a offrire la “cucchiarella”, ottima per girare la salsa sul fuoco e per impartire qualche lezioncina ai bambini impertinenti. Chi accettava la “cucchiarella” si impegnava a fare suonare nella propria casa le due novene, della Immacolata e di Natale.
Per questo, il presepe doveva essere allestito nel corso del mese di novembre: per essere pronto, alla data stabilita, ad accogliere il devoto omaggio alla Madre di Dio da parte degli zampognari e di tutta la famiglia riunita intorno a loro.
“Questa novena che abbiam cantata a Voi, Vergine bella, è dedicata”.
Mio padre non mancò mai di fare cantare la novena nella sua bottega artigiana. Gli zampognari erano padre e figlio. Il più anziano suonava la ciaramella e di tanto in tanto staccava per cantare le strofe, con il grave sottofondo della cornamusa, suonata dal giovane.
L’otto dicembre è la festa della Immacolata Concezione. Nella chiesa di San Domenico Maggiore, a Napoli, vi è una statua della Vergine, realizzata da mio padre Vincenzo nei primi anni Cinquanta. Fra tutte le statue di mio padre è quella che prediligo. Ha uno slancio verso l’alto che mi ha reso sempre certo, al di là di ogni razionalistico dubitare, che, anche se siamo su questa terra, non le apparteniamo. Il nostro destino è nell’alto, dove sono le nostre radici.
Certo, mi dirai, un figlio stravede sempre per l’opera di suo padre. Non posso negarlo. Ma talvolta ho avuto qualche riscontro oggettivo.
Ti racconto un piccolo episodio, di qualche anno fa.
Il giorno dell’Immacolata, per la Messa, vado sempre nella chiesa di San Domenico Maggiore. Quella volta, al termine della celebrazione, il padre domenicano che aveva officiato il rito, salutando i fedeli, li invitò a fermarsi davanti alla statua dell’Immacolata per una preghiera. E aggiunse di avere sempre avuto per quella statua una particolare predilezione, perché, pregando davanti a lei, si sentiva come attirato verso l’ alto.
Puoi immaginare come mi sentii pieno d’orgoglio, e non solo: avevo la prova che non era solo mia la sensazione di forte spiritualità che promana da quella immagine. Attesi che il padre domenicano si dirigesse verso la sacrestia, perché volevo ringraziarlo per le sue belle parole. Perciò, sulla soglia della sacrestia, lo chiamai riguardosamente: “Scusi, Reverendo …”
Con mia sorpresa, il serio domenicano risponde celiando: “Eh … reverendo…! a chi vuo’ prendere in giro!?!”
Sorpreso dal tono, cerco una risposta adeguata, non la trovo, ma nel frattempo lo riconosco: un mio antico compagno d’Università, uno bravissimo, che, naturalmente stimavo molto. Nella mia biblioteca conservo anche alcuni suoi libri, perché è uno studioso delle letterature latina e greca.
Lui mi aveva riconosciuto, mentre ero al mio posto nel banco della chiesa, ma io non avevo riconosciuto lui. Fu sorpreso di sapere che quella statua era opera di mio padre: aveva letto la firma, mi disse, ma non l’aveva collegata al mio cognome.
Quante volte mio padre ha raffigurato la Madre di Dio sul suo trono di gloria o assunta in cieli al di sopra delle nubi, in un coro di angeli. E , nel pensare le fattezze della Vergine, sempre si era ispirato al viso di mia madre.
Purtroppo non so trovare le parole adatte a fare comprendere che cosa si prova a vedere le fattezze della propria madre terrena trasfigurate nel viso della Madre di tutti: è il miracolo dell’arte, il miracolo della fede.
“Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio,
Umile ed alta più che creatura,
Termine fisso d’etterno consiglio…”
Della fede che raccorda insieme i versi sublimi del padre Dante e l’Ave Maria recitata con devozione dall’umile donna che torna dal mercato, carica delle buste della spesa.
E ti racconto un altro episodio. Ero stato, ancora una volta, nella Cappella Sansevero a studiare il simbolismo diffuso a piene mani nella sua chiesetta nobiliare dal Principe Raimondo de’ Sangro. Erano anni che lavoravo all’interpretazione della complessa rete di figure e di significati escogitati dalla mente di quel geniale studioso che il popolo napoletano considerò uno stregone.
Ero giovane, allora. A un certo punto, sentii stanca la mente e dovetti uscire dalla cappella, quasi per potere respirare. Mi rifugiai nella chiesa di San Domenico che, come sai, è proprio lì, a due passi. Naturalmente sostai davanti all’Immacolata. Vi era una donna che pregava fervidamente, assorta nella contemplazione della Vergine.
Capii allora perché mi ero sentito stanco, nella Cappella dei Sangro: come impallidiva e come si sgonfiava l’astruso simbolismo, saturo di orgoglio intellettuale, accessibile a pochi, di fronte alla purezza di quel simbolo accessibile a tutti, purché disposti ad accostarvisi con umiltà, e che aveva lo stesso significato per me, per Dante, per la donna che pregava: parlavamo tutti e tre lo stesso linguaggio, quello insegnatoci dall’Angelo che un giorno pronunciò le parole sublimi nella loro semplicità: Ave Maria …
Che peccato che gli zampognari non percorrano più le strade di Napoli a cantare e suonare la novena in onore dell’Immacolata e di Gesù Bambino. Certo, è segno di un benessere materiale sospirato e raggiunto, ma forse anche di un decadimento spirituale.
Che la bellezza sia inseparabile compagna della povertà?
Mi farebbe piacere sapere che ne pensano gli altri.
Caro Italo,
sono commosso dal tuo articolo e appena metterò piede a Napoli voglio vedere la statua e fermarmi a pregare contemplandone tutta la sua magnificenza.
Grazie di cuore
Mariano
Come al solito, sono io che devo ringraziarti. Su questa statua dovrò scrivere ancora. Ora devo tornare ai “personaggi” del presepe popolare.
ci passerò anche io appena possibile a guardarla, l’Immacolata..
delizioso e commovente passaggio nella nostra via, questa volta verso il passato..
da bambina non mancavano, ogni anno, gli zampognari.. da millemila (mi conceda il termine, prof 🙂 ) anni non avevo più sentito quel suono nasale che a me piaceva tanto.. è accaduto quest’anno quando ero in compagnia di una giovane mamma che sottovoce “malediceva” quelli che impaurivano il suo splendido fagottino..
certo che se avessi saputo che l’idea della cucchiarella era loro, dato l’uso frequente che ne è stato fatto su di me, li avrei ascoltati con meno piacere..
Il fatto che quella giovane mamma, invece di provarsi a rassicurare il suo “splendido fagottino”, maledicesse gli zampognari, è segno dei nostri tempi perversi. Incapacità di aiutare i figli a superare le difficoltà e correlativa pretesa che le difficoltà stesse non esistano. Credo che, sotto questo punto di vista, dovresti essere contenta di avere avuto chi ti desse le “cucchiarellate” per farti rigare dritto. Grazie di avermi scritto.
Carissimo Italo,
è vero che la figura povera ma tanto evocativa degli zampognari sta venendo meno: eppure qualcosa permane. Qui a Bagnoli sono scesi degli zampognari che da anni passano qui. E non ti nascondo l’effetto che fa sentirli suonare per strada verso le 7,30 del mattino specie se in Domenica o all’Immacolata.
Possediamo un patrimonio culturale e spirituale di immenso valore.
Mi colpiva la parola nostalgia: e la mia mente ritorna al grido del profeta Isaia nel libro della consolazione: “Consolate, consolate il mio popolo dice il Signore!”. non solo quale ricordo del bene fatto da Dio per il popolo eletto, esiliato in Babilonia, ma per i popoli di tutti i tempi che anelano all’infinito e ad una dignitosa esistenza che tenda alla pienezza, che colmi ogni vuoto, annulli ogni dolore. Penso che chi orienta la propria esistenza illuminata dalla luce del Verbo incarnato può fare molto.
Grazie di tutto!
Veramente, a me basterebbe riuscire a fare anche soltanto poco. Ma come è difficile fare anche quel “poco”. Kai ho Logos en skotìai phainei, kai to skotos autòn ou katélaben: Iohannes, I.
Carissimo Professore,
anche questa volta, dopo aver letto con attenzione l’ articolo sugli zampognari e il loro malinconico suono, non ho potuto evitare di lasciarVi un commento.
La sensibilità, la nostalgia, il “desiderio del ritorno”, sono tutti sentimenti presenti da secoli nel DNA dei meridionali e, soprattutto, di noi napoletani.
Greci dalla nascita e nel sangue, abbiamo da Loro assorbito quel sacro desiderio del focolare domestico, intimità, ricordo, forte nostalgia della “casa”…come il greco Ulisse!
E proprio a tal proposito, leggendo l’articolo mi è affiorata alla mente la commedia “L’uomo, la bestia e la virtù” di Luigi Pirandello dove alla parola “casa” sono inevitabilmente connessi tutti quei sentimenti da Voi menzionati: nostalgia, ricordo, malinconia…
“…la casa, cara Rosaria, credete a me, non è mai quella che ci facciamo noi e che ci costa tanti pensieri e tante cure. La vera casa, quella di cui sentiamo il sapore quando si dice casa…un sapore che nel ricordo è così dolce e così angoscioso, la vera casa è quella che altri fece per noi, voglio dire nostro padre, nostra madre, coi loro pensieri, e le loro cure. E anche per loro, per nostro padre e nostra madre, la casa, la vera casa per loro qual era? Ma quella dei loro genitori, non già quella ch’essi fecero per noi…È sempre così…”
Un forte abbraccio e a presto!
Giovanni Raso
Grazie, anche per la preziosa pagina di Pirandello, che si addice perfettamente non solo a questo discorso, ma a tutti quelli che stiamo portando avanti su queste pagine.