domenica , 1 Dicembre 2024
tarantolata

Il “tempo salvato” del presepe popolare

In omaggio al grande antropologo Ernesto De Martino ho definito “tempo salvato” il periodo dell’anno che va dal momento in cui si “smonta” il presepe a quello in cui se ne inizia uno nuovo: momenti che sono situati all’inizio e alla fine dell’anno.

Una delle frasi del mio Il Sogno di Benino  (che puoi trovare qui) che è stata più citata e che, quasi un aforisma, è stata tradotta in alcune lingue europee, è quella che dice: “Quando i Napoletani non sono impegnati a fare il presepe, sognano di farlo”.

Questa speciale attitudine del Napoletano è favorita dalla circostanza che, qualunque sia la data scelta tra quelle tradizionali per riporre il presepe (sei o diciassette gennaio, oppure due o tre febbraio), il nuovo sarà allestito nello stesso anno in cui è stato tolto il vecchio.

Questa stessa circostanza è  garanzia di continuità che contribuisce a rendere la costruzione del presepe un momento significativo nell’esistenza quotidiana e può costituire il punto di aggregazione della personalità.

Come è stato appunto per me.

Il presepe, con le sue varie fasi di riflessione e di costruzione, è stato presente nella mia vita sin da quando ero bambino; si può dire che tutti i miei studi (Virgilio, Sannazaro, la mitologia greca, le letture alchemiche etc.) finirono, sempre, in qualche modo, col convergere in esso.

Una domanda mi si impose fin dall’inizio delle mie ricerche: perché, diventando adulti, si smette (anche se non sempre) di giocare con i soldatini, ma non si smette di “giocare” a “fare il presepe”?

Questo fatto significava, per me,  che “fare il presepe” non era un “gioco” come tutti gli altri, ma che rivestiva un senso particolare.

Tra i testi che rappresentarono una fonte di ispirazione per le mie riflessioni, ebbero una grande importanza le opere di Ernesto De Martino.

Questo autore ebbe, tra i suoi numerosi meriti, quello non piccolo di avere fatto l’antropologo, per così dire,  “a casa sua”, e non presso i cosiddetti “selvaggi”, come  tanti altri.

Tra l’altro, lettore e ammiratore di Benedetto Croce, seppe dimostrare che anche il mondo contadino ha una sua “storia”, contro chi ne teorizzava la astoricità.

Contro chi vedeva in certi rituali del mondo contadino e popolare nient’altro che forme di superstizione e di inciviltà, egli li interpretò, al contrario come manifestazioni culturali tese al  superamento di gravi momenti di crisi, nei quali l’individuo corre il rischio della “perdita di sé”: il rischio, cioè, dell’alienazione e della follia, che può condurre fino al suicidio. Nel mondo popolare e contadino, un momento del genere è costituito dalla perdita del capofamiglia, il cui lavoro assicura il sostentamento e la sopravvivenza dell’intero gruppo familiare.

Ora, dice De Martino, le ricorrenze hanno la funzione di cooperare al superamento del momento della crisi, ritualizzando il dolore: questo comporta che le manifestazioni del dolore sono limitate nella loro espressione e circoscritte in periodi ben precisi.

Ad esempio, per quanto riguarda gli avvenimenti luttuosi, il 2 novembre, il trigesimo, l’anniversario, e così via, hanno la funzione di ripetere il momento del dolore, ma anche di circoscriverlo alla ricorrenza e così di superare il lutto.

Ernesto De Martino parla poi del meridione come della  “terra del rimorso”, cioè della “terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito” e in varie sue opere dimostra che le pratiche rituali servono a scongiurare le ansie di un’esistenza precaria.

La danza dei tarantati in certi paesi della Puglia serve  (o meglio, per fortuna, possiamo dire serviva) a rivivere l’evento in cui il “malato” ha subito il primo morso (simbolico) del ragno e a scongiurarne gli effetti; tra l’uno e l’altro di questi momenti rituali, in cui è permesso abbandonarsi  alla frenesia, all’esasperazione, al “rimorso”, si stende il cosiddetto “tempo salvato”, cioè recuperato alla vita operosa della collettività.

Fu una mia ex alunna, Carmela Pisaniello, a pormi una volta la domanda se  il presepe poteva in qualche modo rientrare nell’ambito dei rituali del “tempo salvato”.

Avevo, infatti, spiegato in classe le teorie di De Martino in relazione alla tragedia greca e alle origini dionisiache del teatro.

La domanda era pertinente, come in genere tutte le domande che questa studentessa mi rivolgeva.

Riassumerò qui la risposta, che fu, naturalmente, molto più lunga ed articolata.

Poiché all’allestimento del presepe è sottesa la paura per il rischio, che il mondo intero corre, di una vittoria delle Tenebre sulla Luce, anche questa pratica affascinante costituisce un vero e proprio rituale salvifico.

Ho spesso spiegato che il presepe non coinvolge l’intera famiglia solo nella fase dell’allestimento, ma diventa, per tutto il periodo natalizio, il centro di riti che tengono unito il gruppo familiare: deporre il Bimbo nella mangiatoia la notte di Natale, fare avvicinare un po’ alla volta i Re Magi alla grotta della Natività, farli smontare da cavallo il giorno dell’Epifania perché presentino i doni al Bimbo Divino, rappresentano momenti di commozione e di aggregazione.

Anche l’azione di smontare il presepe risponde a questi principi.

Una volta, c’era, presso alcune famiglie del popolo, anche la consuetudine di togliere dalla grotta i tre personaggi principali, il Bambino, la Madonna e San Giuseppe, la sera dell’Epifania, e al loro posto porre le figure delle Anime Purganti, mantenendo il presepe fino al 2 febbraio.

Questo aspetto della ritualità rivestiva una particolare importanza, per la connessione delle tre figure Sacre con le anime del Purgatorio e con la festa della Purificazione.

Ma su tutto questo dovrò ritornare.

Per ora, mi limito a sottolineare, ancora una volta, come, tra l’azione di riporre il presepe e quella di approntarne uno nuovo, eventi che avvengono nel corso dello stesso anno, al principio e alla fine di esso, si stende il “tempo salvato”, come l’abbiamo definito in omaggio a Ernesto De Martino.

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4 commenti

  1. Ciao Italo,
    concedimi una battuta: penso che la domanda della Pisaniello era un po’ “viziata”, conoscendo la passione del suo esimio professore… ah ah! Comunque, è un articolo molto interessante, l’argomento è da riprendere assolutamente e poi la consuetudine del “rimpiazzo” non la conosco.
    Un caro saluto
    Mariano

    • peppe cicirelli

      Caro Italo,mai come oggi abbiamo bisogno di un ” tempo salvato ” per poi continuare con più entusiasmo nei nostri rituali corretti dalla ritrovata fiducia ed una Fede più profonda. Un caro saluto.

    • La consuetudine del “rimpiazzo” non è in effetti conosciuta da molti. Per fortuna, direi; altrimenti, se i miei lettori conoscessero già tutto, io, a che scopo scriverei? Non trovi? In quanto alla Pisaniello, non hai del tutto torto. Anzi, poiché è una bravissima ragazza, anche molto generosa, è probabile che mi avesse posto la domanda, per evitare che continuassi a interrogare due suoi compagni che sulla tragedia non erano molto preparati. In questi casi, fingevo sempre di cascarci.

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