La taverna, sul presepe napoletano, è simbolo di un’atavica fame, che solo nel sogno può essere soddisfatta, anche perché allude anche a una più alta forma di fame: la fame di Dio e della sua salvezza.
Tra le scene principali di cui si compone il presepe, sia esso colto o popolare, la più variopinta, quella che non manca mai di suscitare divertita curiosità, per la profusione dei particolari, è senz’altro la taverna, che rinvia al diversorium, l’albergo nel quale la Santa Coppia non trovò posto: nel Vangelo di Luca vi è solo un discreto accenno (Maria depose il Bimbo appena nato “in una mangiatoia, perché non vi era posto per loro nell’albergo”, II, 7), ma intorno ad esso la tradizione ha costruito una serie di episodi tesi a mostrare il disinteresse, fino all’ingratitudine, degli uomini nei confronti di Dio che viene a farsi uomo in mezzo a loro e per loro.
A proposito della taverna, credo che tutti, almeno i più anziani, conoscano la poesia di Guido Gozzano, “La notte Santa”, che parla del vagabondare di Maria e Giuseppe alla ricerca di un alloggio per riposare dalla lunga via, trovando ovunque un rifiuto, motivato nelle più varie maniere.
La poesia si conclude con l’annuncio gioioso: “è nato, alleluja, alleluja”.
Forse l’accenno di Luca, circa la taverna in cui non c’era posto per la Santa Coppia, è stato arricchito di questi altri significati anche sulla base dell’inizio del Vangelo di Giovanni, che è uno dei passi più alti della letteratura religiosa mondiale: In principio era il Verbo.
Questo “prologo” ha fatto sì che il simbolo del quarto Evangelista sia stato identificato nell’aquila, l’uccello acuta vista che è quello che più di ogni altro essere vivente può avvicinarsi al sole e guardare in esso, senza esserne abbacinato.
Dice dunque Giovanni:
Il Verbo fu nel mondo: il mondo era stato fatto per mezzo di Lui e il mondo non volle riconoscerLo.
Venne in casa propria e i suoi non vollero accoglierLo.
Dunque, Gesù nasce, al freddo e al gelo, mentre la taverna che non ha voluto accoglierLo è piena di gente intenta a banchettare e a godersi la vita, ignara che nell’umile grotta poco lontana si sta compiendo l’evento centrale della Storia, che dà alla Storia il suo significato.
L’immagine più celebre della taverna è forse quella del “presepe Cuciniello” nel Museo di San Martino di Napoli e che è stata replicata innumerevoli volte dagli artigiani di San Gregorio Armeno. Ne ho anch’io una riproduzione che ho collocato spesso sul mio presepe.
In questo “episodio presepiale” i Napoletani sbrigliano la loro fantasia, non solo collocando intorno al tavolo un gruppo di banchettanti, ma disponendo all’interno e all’esterno della taverna la raffigurazione di ogni cibaria adatta a saziare la vista, il palato e il ventre, immagine di quel “cenone natalizio” che sembra, più che un piacere, quasi un dovere cui adempiere.
Anche qui ci soccorre la commedia eduardiana “Natale in casa Cupiello”, dove la buona Concetta dice:
Domani è quel Santo Giorno e solo io so quello che ci vuole …
La taverna, sul presepe, è dunque anche il simbolo di quella fame atavica che attanagliò per secoli il popolo napoletano e che la profusione di tutte quelle cibarie riprodotte in miniatura tende a scongiurare, saziandola, almeno nel “sogno della Notte di Natale”, con una solenne “abbuffata”.
Della fame a Napoli parla, con equilibrio e verità, il nostro più grande scrittore, bistrattato da una critica letteraria ideologica e faziosa, che ha spinto a relegarlo nell’angolo della letteratura folcloristica, di colore locale: non è questa la prima volta, né sarà l’ultima, che parlo di Giuseppe Marotta.
La fame è inoltre fedele compagna del personaggio comico della Cantata dei pastori, il napoletano Razzullo, che si aggira nei dintorni di Betlemme e che sarà spettatore della nascita della vera Luce nelle tenebre, dopo che anche per lui la taverna si è dimostrata un luogo per più ragioni pericoloso.
Ma non ti ho più volte avvertito che il simbolo non è mai semplice, bensì che esso va interpretato nella sua ambiguità?
Allora puoi attenderti che, come la Luce rifulse nelle tenebre, anche la taverna mostrerà il suo contenuto di positività: infatti, non disse forse Qualcuno che
non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio
e lo disse autorevolmente?
E tuttavia moltiplicò pochi pani per saziare la fame materiale di una folla che Lo aveva seguito nel deserto. Perché la fame del pane quotidiano può essere metafora di una fame più alta, la fame di Dio e della sua salvezza.
E allora, sei pronto e disposto a continuare con me la ricerca?
Caro Professore, è vero…quanta fame ha sofferto il popolo partenopeo!
Per secoli i napoletani hanno dovuto combattere con questa bestia invisibile, sempre presente; per essa molti sono stati costretti a prostituirsi, a rubare, ad uccidere, facendo sprofondare l’Uomo nell’abisso più cupo della propria anima.
Ma la voglia di rialzarsi è forte, molto forte nei napoletani; le grandi emigrazioni verso le Americhe, infatti, ne sono un esempio.
Per vincere la fame si è attraversato l’oceano, si è stati costretti a lasciar tutto: affetti, amici, parenti, luoghi cari. Ma il cuore e la mente sono sempre ritornati a Napoli, non solo luogo di miseria ma anche e soprattutto di dolci ricordi !
Così E. A. Mario nella sua nostalgica “Santa Lucia luntana”, per me una delle più belle canzoni napoletane:
Partono ‘e bastimente
p’ ‘e terre assaje luntane,
cantano a buordo e so’ napulitane!
Cantano pe’ tramente
‘o golfo già scompare,
e ‘a luna, ‘a miez’ ‘o mare,
‘nu poco ‘e Napule
lle fa vede’…
Santa Lucia,
luntana ‘a te
quanta malincunia!
Se gira ‘o munno sano,
se va a cerca’ furtuna,
ma quanno sponta ‘a luna
luntana a Napule
nun se po’ sta!
Ma voglio farVela ascoltare nella interpretazione del tenore Giuseppe Di Stefano.
Ecco il link:
https://www.youtube.com/watch?v=Ur2AaPndCZk
Buona serata e buon ascolto!
A presto!
Giovanni Raso
Grazie, Giovanni. Spero che anche altri leggano questo commento e ascoltino la canzone. Vedrò se potrò inserirla, prima o poi, nel testo.
Qualche anno fa, caro Italo, su tuo consiglio ho letto del Marotta “Gli alunni del sole”: un libro meraviglioso, da leggere assolutamente.
Ti auguro una buona serata
Mariano
Grazie. Non ricordavo di avertelo consigliato. Tra breve dovrebbe uscire un mio volumetto con delle pagine dedicate a questo libro, che è senz’altro il più bello di Giuseppe Marotta. Ma vale la pena di leggere “L’oro di Napoli” e “Gli alunni del tempo”.
Caro Italo,
lo so che sono uno scocciatore, ma conosci bene la mia passione per i libri e quindi su questo argomento ti chiedo maggiori dettagli: anzitutto il titolo del tuo volumetto e poi l’uscita è prevista a giorni o per il mese di…
Grazie
Mariano
A parte che mi piacerebbe essere “scocciato” da un numero maggiore di “scocciatori”, il libro è in corso di stampa e la data di pubblicazione dipende dalla “bontà” del tipografo e dal polso fermo dell’editore. Si tratta di un piccolo volume su “Dei ed eroi della Campania antica”, condotto con gli stessi criteri di “Genti e miti della Campania antica” e “Dal Roccamonfina al Vulture”. Sto portando avanti una serie di volumetti tesi a coprire la topografia e la cultura della mia regione nell’antichità. Il seguito dipende dalla buona disposizione degli editori.