Il simbolo è un oggetto del mondo visibile, che rimanda, con la sua presenza, ad una realtà superiore ed invisibile. Entriamo spesso in contatto con i simboli nell’arte, nella religione, nel folclore. Imparare a riconoscerli e a “leggerli” è molto importante per la propria vita psichica e spirituale.
Per parlare del simbolo e del simbolismo, cui di continuo mi riferisco nei miei scritti, è consigliabile partire dal dizionario: riporto la voce dal Grande Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, edizione del 1987.
simbolo sìm-bo-lo s.nt. 1. oggetto, o altra cosa concreta che può sintetizzare ed evocare una realtà più vasta o un’entità astratta; emblema: il verde è – della speranza; la bandiera è il – della patria; Mai la Morte s’ebbe / più delicato simbolo dì Psiche (GOZZANO) 2. segno convenzionale usato per esprimere in forma sintetica un ente matematico, una grandezza fisica, un’operazione, un elemento chimico ecc.: – astronomico, cartografico: ‘V’ è il – della velocità; ‘H’ è il – dell’idrogeno 3. (ling.,filos.) in generale, ogni segno del linguaggio scritto o parlato […] 4. Simbolo degli Apostoli (o Simbolo niceno-costantinopolitano), nel linguaggio religioso, il Credo, in quanto compendia le verità fondamentali della fede cristiana. Dal lat. symbolu(m), e questo dal gr. symbolon, propr. ‘segno di riconoscimento’, deriva da symballein ‘mettere insieme’.
Ti sarai accorto che il dizionario non fa distinzione tra simboli e simboli: la natura di tutti i simboli è di rinviare ad un’altra realtà, ma possono farlo sulla base di una convenzione o perché hanno in sé una forza evocatrice e parlano immediatamente allo spirito umano, senza che vi sia stato un accordo preliminare tra gli uomini. Non tutti i simboli, hanno, cioè, la stessa natura.
Prendiamo come esempio i segnali stradali: niente, se non la convenzione, fa capire che un triangolo è simbolo del pericolo e il cerchio simbolo del divieto. Così è stato deciso, ma niente sarebbe cambiato se fosse stato deciso il contrario.
La bandiera dai tre colori, bianco, rosso, verde, è simbolo dell’Italia: qui il caso è un po’ più complesso, perché alla base vi è, sì, una convenzione, un accordo, ma il bianco fa pensare immediatamente alle cime nevose delle Alpi e degli Appennini, il verde alle vallate e alle distese erbose e il rosso al sangue che i patrioti hanno versato per fare l’Italia. Ma anche qui entra in gioco, per buona parte, la convenzione.
Ben altri sono i simboli di cui noi vogliamo parlare.
Avrai notato, nella definizione del Dizionario, la frase di Gozzano: “Mai la Morte s’ebbe / più delicato simbolo di Psiche”. Il poeta sta parlando della “farfalla” e dice che mai vi fu un simbolo più delicato per esprimere l’anima (Psiche è la parola greca che indica sia l’anima, sia la farfalla) la quale sopravvive alla morte del corpo.
Qui non è in gioco un “accordo”, una “convenzione”, tra gli uomini: che la farfalla richiami allo spirito con immediatezza l’anima umana è una realtà che è stata sempre avvertita, in tutte le epoche e in tutti i luoghi, indipendentemente anche dalla cultura e dalla religione degli individui. Alla base vi è l’osservazione, in natura, della trasformazione subita dal brutto bruco quando diventa una bella farfalla: trasformazione che rinvia alla resurrezione, di cui essa è simbolo. Per questo, nel Decimo canto del Purgatorio, Dante rimprovera agli uomini di non riflettere sulla caducità della vita umana, con queste parole:
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Questo simbolo lo ritrovi, a Napoli, sulla tomba di Giacomo Leopardi, nel Parco Virgiliano, dove le ossa del grande Poeta furono trasportate negli anni Trenta del Novecento. La farfalla, simbolo della resurrezione, è al centro di un intreccio di fronde di quercia, con le ghiande, e di ulivo. Quercia e ulivo sono alberi che hanno anch’essi un valore simbolico.
Nel riquadro sottostante altri simboli di immediata evidenza. La civetta, simbolo della sapienza, poggia sulla lucerna. Civetta e lucerna sono racchiusi dal cerchio dell’uroboros, il serpente che si morde la coda, antichissimo simbolo dell’eternità: il principio che si collega alla fine, e viceversa.
Tutta la raffigurazione vuole dunque dire che l’anima del poeta è immortale e si eleva verso le sfere superiori per l’opera svolta a vantaggio degli uomini (quercia ed olivo sono piante la cui utilità l’uomo ha sempre riconosciuto). La sua sapienza risplende per l’eternità.
Fu lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung a mettere in rilievo il bisogno di immagini, dalle quali possa essere fecondata una vita religiosa armonica e profonda. Immagini tali da rispondere a quest’esigenza non vengono però prodotte in tutte le epoche e da tutte le culture; molte volte non è nemmeno questione di bellezza e raffinatezza artistica: da un punto di vista religioso, il miglior Tiziano non può competere con la più povera delle icone della Chiesa orientale o con una delle Madonne in trono, affrescate sulle pareti delle chiese romaniche. Queste ultime hanno, infatti, sullo spettatore un impatto emotivo che i capolavori dell’arte occidentale, dal Rinascimento in poi, sono ben lontani dall’avere.
Secondo Jung, l’immagine sacra deve parlare con immediatezza allo spirito, attraverso i segni esteriori. Non a caso è stata usata la parola “segno”, che per alcuni coincide con la parola “simbolo”, mentre per altri se ne diversifica; in questo secondo caso, si può ritenere più pregnante il termine “segno”, o invece il termine “simbolo”. Per la Chiesa Cattolica, ad esempio, è il termine segno” ad essere semanticamente più forte: i Sacramenti sono “segni efficaci della Grazia”, cioè operano effettivamente la salvezza; per lo psicologo Jung, è invece il “simbolo” a significar di più, mentre il “segno” ha la funzione di un semplice richiamo.
In ogni caso, il “segno” e il “simbolo” sono realtà visibili, autonome nella propria esistenza, ma che, nonostante, o proprio in forza di questa loro autonomia, possono rinviare ad una realtà superiore, invisibile.
Le realtà superiori sono, infatti, difficilmente accessibili al linguaggio ordinario, discorsivo: ci si accorge ben presto che questo è inadeguato, quando si prova a dire l’ineffabile: Dante, il maestro della lingua, il “miglior fabbro del parlar materno” (secondo la definizione che egli stesso diede di Arnaut Daniel), ha sentito questa enorme difficoltà, nel momento in cui si accingeva a narrare agli uomini la sua esperienza del Paradiso: trasumanar significar per verba non si potria … e allora ha fatto ricorso alle immagini simboliche: in questo caso, il mito di Glauco, che, mangiando un’alga, divenne immortale, accolto fra gli dei del mare: però l’essemplo basti a chi esperienza grazia serba (Paradiso, Canto I).
La principale legge del simbolismo è che nel dato naturale deve trasparire la trascendenza; che cioè di fronte ad una immagine, colui che guarda sappia (o meglio senta) che ciò che sta guardando significa più di quanto l’immagine in sé rappresenti: da qui la straordinaria fioritura, nelle chiese medievali, di sculture che ad occhi moderni appaiono bizzarre o semplicemente decorative (“hanno funzione ornamentale”, è il consueto commento dei critici), mentre per i contemporanei esse valevano più di mille parole.
Ti propongo di seguito alcune immagini che ho raccolto in giro per le città dell’Italia, nel corso dei miei vagabondaggi estivi, rielaborandole, una volta tornato a casa.
La prima è tratta dalla decorazione del portale della chiesa di santa Croce in Gerusalemme a Bologna: il leone che aggredisce un uomo, mentre calca con una zampa la testa senza vita di un altro, richiama alla mente del fedele consapevole il monito della Lettera di San Pietro: “il vostro avversario, il diavolo, vi circuisce, cercando chi divorare”.
La seconda immagine, tratta dalla chiesa dei Santi Agricola e Vitale, ancora a Bologna, mette uno accanto all’altro un Angelo, una Sirena bifida, un uccello; strano accostamento, se non potessimo pensare a tre diverse modalità del canto, musica celestiale, oppure seduzione di una voce ingannevole, o anche semplice suono della natura, che il fedele deve imparare a riconoscere.
Da Verona provengono invece le due immagini successive, con il leone androprosopo (cioè dal volto d’uomo) e l’uomo divorato dal drago, segno dell’abisso primordiale, del nulla da cui l’uomo è uscito e a cui dovrà tornare, se la Grazia di Dio non lo affranchi dal suo destino naturale e non lo sollevi alla gloria del cielo.
Incontrare i simboli, e riconoscerli, nel cammino della propria vita, può avere un grande valore conoscitivo, formativo e liberatorio.
E tu, nel percorso della tua vita, ti sei mai imbattuto in simboli che hanno influito positivamente sulla tua esistenza?