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Il presepe sul luogo del delitto

Può una statuina del presepe, infranta, costituire l’indizio per risolvere il caso di un duplice, efferato omicidio? La risposta è sì, se il delitto è compiuto a Napoli, pochi giorni prima di Natale, se l’inchiesta è affidata al commissario Ricciardi e, soprattutto, se la statuina violata raffigura uno dei personaggi fondamentali del presepe: San Giuseppe.

per mano mia copertinaIl commissario Ricciardi è un personaggio di notevole spessore narrativo e psicologico, “inventato” da Maurizio De Giovanni, uno scrittore nato a Napoli nel 1958. Le inchieste di Ricciardi costituiscono una sequenza narrativa, disposta per cicli: il ciclo delle stagioni, delle festività e così via.

Per mano mia (Torino, Einaudi, 2011) è il primo romanzo del ciclo delle festività ed è dedicato al Natale.

Non voglio dirti nulla della trama, per non toglierti il gusto della lettura, nel caso tu decida di leggere questo ottimo romanzo, degno di entrare a fare parte della biblioteca del lettore che ama il giallo e, contemporaneamente, il presepe: come me, appunto.

Infatti, la mia amica e collega Giulia Nardone, che conosce queste due mie passioni, per il Natale 2011 mi regalò questo libro di cui ora voglio parlarti.

Inizierò qui con il segnalarti quegli aspetti che riguardano il tema che, qui,  più ci interessa, quello del presepe.

Protagoniste assolute del libro sono le mani assassine, o che assassine potrebbero diventare: tutte egualmente impegnate a “fare il presepe”. Mani, che adoperano il coltello per tagliare i sugheri e modellare le statuine, oppure per squarciare una gola o perforare un cuore.

Ora le mani assassine controllano la struttura in legno, ve­rificano le giunture, ne saggiano la resistenza, Si accorgono che un angolo non è ben inchiodato, prendono un martello e ribat­tono precise, attente.

Tornano al pentolino [della colla], inclinandolo leggermente senza allonta­narlo dalla fiamma. Toccano il sughero, lo soppesano, valutano le dimensioni dei pezzi, la curvatura delle cortecce. Sanno che la preparazione del materiale e la qualità delle componenti so­no la cosa più importante, e che non possono sbagliare.

Le stesse mani che hanno squarciato la carne con un unico gesto netto vanno alle statuine, messe in fila sul tavolo; a una a una le contano, le dispongono secondo un ordine di rigorosa importanza: prima gli elementi architettonici, colonne, templi in rovina, capanne e case; più avanti gli oggetti, banchi di macel­leria e di pesce, carrozze, carretti di frutta e salumi, sedie, mobi­li. Poi gli animali, pecore di diverse dimensioni per dare l’idea della distanza, cavalli, mucche, galline, galli e pulcini, E anche cammelli, elefanti, struzzi in un incongruo serraglio, nei confini di racconti e tradizioni e non di continenti e nazioni (p. 3).

L’inchiesta del commissario Ricciardi, coadiuvato dal solerte quanto massiccio brigadiere Maione, coinvolge i pescatori del Borgo Marinaro e alcuni esponenti della potente milizia fascista, nella Napoli degli anni ’30, nella zona di Mergellina (la Mergoglino degli antichi poeti), che da borgo di pescatori si avvia a diventare quartiere elegante.  Nel corso dell’indagine, Ricciardi scopre il vasto mondo del presepe, che per lui, fino a questo momento, è stato solo un vago ricordo dell’infanzia. A Natale, tutti fanno il presepe per i loro figli, sia i ricchi, sia i poveri, perché “Natale è il presepe e il presepe è Natale”: i ricchi acquistando pregiate statuine o le preziose figure vestite del Settecento, i poveri, magari, incollando sul compensato, per poi intagliarle, le figure della marca Stella (la stessa che produceva i fogli dei soldatini):

Io stavo intagliando il legno, per incollarci sopra le figure del foglio Stella: pure i bambini miei devono avere il presepe. Tut­ti e quattro vicino a me, per vedere nascere il bue, l’asinello, i re Magi. Qualcuno glielo dipingo io, sul foglio certi pastori non ci stanno: Cicci Bacco, zi’ Vicienzo e zi’ Pascale, Stefania, il Mo­nacone. E i pescatori, è naturale. I pescatori, li devono vedere nel presepe. Devono pensare che ci stanno pure gli zii, gli amici. Il padre. Tutti ci devono stare, nel presepe. Tutti hanno diritto (p. 36).

Ricciardi scopre soprattutto che il presepe non è allestito secondo il capriccio del costruttore, che niente vi è lasciato al caso, ma che ogni personaggio ed ogni elemento rivestono un ruolo preciso, hanno un significato simbolico. È quanto gli spiega don Pierino, viceparroco della chiesa di San Ferdinando, al termine di via Toledo (o via Roma: né i cittadini, né l’amministrazione comunale riescono a decidersi fra questi due toponimi). Il buon sacerdote, nel mostrare il presepe e nello spiegarne i molteplici significati, è pieno di entusiasmo, eccitato come un bambino (e del resto, tutti, davanti al presepe, ritorniamo un po’ bambini):

Il presepe è una delle più anti­che e consolidate tradizioni del nostro popolo. Attraverso esso, nei momenti vari della storia di questa città, sono sta­te rappresentate situazioni e personaggi entrati a far parte della fantasia popolare. Vedete, ogni presepe, anche il più povero, è su tre livelli: in alto il castello di Erode, là, che rappresenta il potere e la prevaricazione; in mezzo la cam­pagna, col gregge, i pastori e il resto; in basso, e davanti, la grotta con la Natività. E mischiati nel paesaggio, le rovine del tempio, a simboleggiare il trionfo della cristianità sugli dèi pagani, la taverna, che simboleggia l’attitudine umana al vizio eccetera. Ogni elemento del presepe ha un significato, e i principali più di uno.

[…]

il banchetto che vedete in corso, al suo interno [cioè della taverna], fa riferimento al rifiuto che le osterie e gli alberghi diedero alla Sacra Famiglia che chiedeva di esse­re ospitata. Rappresenta la cattiveria umana e l’egoismo, che l’avvento di Cristo illuminerà. Il forno, che vedete là, non manca mai: oltre a mostrare uno dei mestieri più antichi, fa riferimento al pane che col vino è tra le basi della nostra fe­de. Il ponte sul fiume, che vedete in secondo piano, si rife­risce a un’antica leggenda che vuole che nelle sue fondamen­ta siano stati seppelliti tre bambini, appositamente uccisi, per tenere salde le arcate con un incantesimo. Il significato è l’unione, il ponte appunto, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Anche il pozzo, che non manca mai, rappresenta un collegamento diretto del mondo con gli Inferi. Come ve­dete, anche l’oscuro e il male trovano rappresentazione nel presepe. Come nella vita, no?

[…]

Vedete il mercato, in se­condo piano? Ogni personaggio rappresenta un mese, gen­naio è il macellaio, febbraio il venditore di ricotta e così via, fino a dicembre che è rappresentato dal pescivendolo. Sono dodici. La zingara, col paniere di utensili di ferro, predice il futuro e il ferro simboleggia il destino di Gesù, morto in croce. L’uomo addormentato a terra vicino al gregge, per esempio … qui la storia è divertente … rappresenta il fatto che la venuta di Cristo abbia risvegliato il sonno dell’ignoranza della vera fede, e quindi simboleggia gli stupidi, si è sempre chiamato, per tradizione popolare, Benito. Be’, adesso, per ovvi motivi, nessuno più lo chiama così. Lo chiamano «il pastore addormentato». Ma tutti sanno qual è il suo nome, mettono la mano davanti alla bocca e poi ridono.

[…]

scusatemi tutte queste chiac­chiere, io starei ore e ore a parlare del presepe. La Famiglia, naturalmente: Gesù Bambino, l’infanzia, la sapienza, il can­dore e l’innocenza. La Madonna, la maternità, l’intercessio­ne, la purezza. San Giuseppe [….] rappresenta diverse cose.

È il più umano, non essendo una Madre Vergine né il Fi­glio di Dio. È un uomo, e infatti lo vedete, è vestito come un pastore. Ma è anche il padre putativo di Gesù, e un falegname. Per la cristianità rappresenta, oltre alla paternità, il lavoro, la durezza della vita per portare avanti i figli, il sa­crificio quotidiano (pp. 117-120).

Questa lunga, appassionata ed appassionante spiegazione di Don Pierino (per la quale l’Autore, nella pagina finale dei ringraziamenti, si dichiara debitore a Michele Nevola), convince il commissario di avere visto giusto, nell’interpretare in senso simbolico anche la traccia lasciata dall’assassino (o dagli assassini), nella profanazione del presepe:

la statuina di San Giuseppe frantumata e maldestramente nascosta sotto il telo, e quella della Madonna lievemente inclinata sull’asinello. Nel prendere il marito, avevano abbattuto la moglie. Troppo sim­bolico, per essere un caso (p. 110).

Sarà proprio questa profanazione, anche se l’interpretazione iniziale è fuorviante, a permettere la soluzione finale, davvero sorprendente, non tanto per la persona dell’assassino, quanto per il movente che ha motivato il gesto omicida. Il commissario Ricciardi è la persona più indicata per avvertire l’importanza del simbolo (di cui ho già parlato qui), perché su di lui grava un dono che è anche una maledizione: ha il potere di “vedere” le anime di quelli che sono morti di morte violenta e di udirne le voci ed è posto, perciò, al confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, proprio come il ponte e il pozzo di cui parla don Pierino.

Come vedi, non ti ho detto nulla della trama, perché non c’è azione più riprovevole, né esasperante, che raccontare la trama di un giallo o addirittura svelarne la conclusione. Per suscitare la tua attenzione, però, e ad onore dello scrittore, devo aggiungere che questi ha saputo disseminare, nel corso della narrazione, una serie di indizi tali da consentire al lettore attento ed esperto di gialli di intuire per lo meno, se non proprio di risolvere con cognizione di causa, la soluzione finale.

Nel libro non manca neppure una bella descrizione della via dei “pastori”,  perché “non c’era un posto in città in cui era più Natale che a San Gregorio Armeno” (p. 154). Ma questa, se vorrai, la leggerai direttamente dal libro.

Per quanto mi riguarda, temo di essere stato ingiusto nei confronti dell’Autore, dando l’impressione che egli abbia scritto un libro sul presepe. C’è anche il presepe. Ma c’è la vita di Napoli nella sua vita variegata, nel suo colore locale, che si tinge di profonda amarezza nel constatare l’enorme distacco tra le sue componenti sociali: i ricchi ed i poveri, rappresentati i secondi dai pescatori, i primi dai miliziani fascisti.

Credo che alle intenzioni dell’Autore, che si esprime in uno stile inappuntabile, ma che non rinuncia a movenze commosse, non sia estranea la manzoniana pietà per gli umili, soggetti sempre ad un potere che, nella vicenda narrata, è quello fascista, ma che tuttavia, nei secoli, è stato sempre lo stesso, arrogante, prevaricatore, spietato. Come in Manzoni, le considerazioni etiche vanno al di là del tempo, per assurgere a dimensione cosmica, in un pessimismo che coinvolge l’uomo in quanto tale. Non puoi non avvertire l’attualità di una considerazione come questa, fatta dal brigadiere Maione, e che suona come condanna senza appello delle classi dirigenti di ieri e di oggi:

Avete proprio ragione, commissa’. Si può rubare la vita di qualcuno, i sogni e le speranze. Il delitto più grande è quello: il furto di speranza (p. 90)

Ma, nel leggere le pagine di De Giovanni, non ho potuto fare a meno di pensare anche a Carlo Emilio Gadda e al “Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana“, sia per il rinvio, non so quanto voluto, alla ferita alla gola di cui muore la povera Liliana, sia per la consonanza tra la concezione di Ingravallo, che al fondo di ogni delitto vede la presenza di una “femmina”, e quella di De Giovanni, che “aveva sempre riconosciuto nella fame e nell’amore, e nei relativi, innumerevoli derivati, le origini di ogni delitto” (p. 28).

E c’è qualcosa della gaddiana pietà per la “debilitata ragione umana”, nel rifiuto di Ricciardi di occuparsi di questioni politiche:

Per quanto lo riguardava, e come cercava di far capire al dottor Modo quando questi lo coinvolgeva nelle sue rabbio­se tirate antifasciste, la politica non gli interessava affatto. Pensava che, alla fine, la radice dei problemi fosse la natura umana: e a quella non c’era rimedio (p. 65).

E altre considerazioni potrai fare tu stesso, se deciderai di leggere il libro; in questo caso, sarebbe davvero bello se tu pensassi di condivide qui, nei commenti a questo post, le tue “scoperte” su questo autore che, nel genere, si avvia a diventare un “classico”.

Buona lettura!

 

2 commenti

  1. Rossella Di Gioia

    Mia madre lo ha letto! Anzi, ha letto tutti i libri di Maurizio De Giovanni e mia cugina lo conosce proprio di persona. Mi hanno sempre parlato bene dei suoi libri ma non ho mai avuto occasione di leggerli. Credo che comincerò proprio da questo 🙂

    • Maurizio De Giovanni è un ottimo scrittore. Mi proponevo anch’io di leggere altro, ma non ne ho ancora avuto il tempo. Quando avrai letto questo sul “presepe”, mi farebbe piacere una tua valutazione personale: sei una che scrive bene e quindi puoi anche dare utili suggerimenti ad altri che volessero leggere i libri di questo autore, che, come mi sembra di avere scritto nell’articolo, si avvia a diventare un classico.

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