domenica , 1 Dicembre 2024
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I viaggiatori stranieri raccontano il presepe napoletano

L’usanza di allestire il presepe nelle case private non ha mancato di suscitare la curiosità e l’interesse dei viaggiatori stranieri che di questa passione tutta napoletana hanno lasciato  preziose testimonianze.

L’uso, introdotto da San Gaetano, di allestire il presepe non solo nelle chiese, ma anche nelle case private, in commemorazione della nascita del Salvatore, ebbe un incredibile sviluppo, fino a diventare un’autentica passione, per la quale molte famiglie non lesinavano sulle spese. Si trattò per lo più di famiglie nobili, il cui esempio ben presto fu imitato dalla borghesia, i cui esponenti vollero gareggiare con la nobiltà anche sotto questo aspetto innocente, come già  facevano in molti altri, di ben maggiore importanza.

A questa, che era molto più di una moda, non sfuggiva neanche la famiglia reale, i cui componenti, a cominciare dal Re e dalla Regina, impegnavano molto del loro tempo nei preparativi per il presepe.

Naturalmente, questa passione, che spesso sconfinava in una vera e propria mania, non poteva sfuggire all’occhio attento ed esperto dei viaggiatori.

Erano, infatti, i secoli nei quali il “viaggio in Italia” non poteva mancare nell’educazione di un giovane europeo  di buona famiglia, perché rappresentava una vera e propria iniziazione alla vita dell’arte e della cultura.

I viaggiatori che venivano nel nostro paese, infatti, erano uomini di cultura, interessati all’arte, alle tradizioni e alla vita popolare. Giungevano in Italia, molto spesso dotati di lettere di raccomandazione per le famiglie più in vista ed erano così ammessi nelle dimore più ragguardevoli.

Un esempio particolarmente interessante è quello di Johann Wolfgang von Goethe, autore dei “Dolori del giovane Werther” e del “Faust”.

In una pagina del Viaggio in Italia, alla data del mese di maggio del 1787, scrive queste annotazioni:

Ecco il momento di dare un’idea di un’altra vera passione dei Napoleta­ni: si tratta dei cosiddetti presepi che si vedono a Natale, in tutte le chiese e che rappresentano, propriamente, l’adorazione dei pastori, degli angeli e dei re, più o meno al completo e for­manti un gruppo ricco e sontuoso. Sotto il bel cielo di Napoli questo spettacolo si allestisce fin sopra le ter­razze delle case. Là si costruisce una impalcatura leggera a forma di capanna, decorata di alberi e di arbu­sti sempreverdi. Si adorna con magnificenza la Madre di Dio, il Bambino e tutti i personaggi che stanno in piedi o che volteggiano intorno. La famiglia napoletana spende per quei costumi grandi som­me. Ma quel che rialza tutta la scena, in un modo inimitabile, è il fondo in cui si inquadra il Vesuvio coi suoi· dintorni. Qualche volta, forse, fra i pupi, vi saranno mischiate delle figure viventi e, a poco a poco, le famiglie nobili e ricche hanno for­mato il loro principale divertimento, rappresentando, cosi, la sera, nei loro palazzi, dei quadri moderni di carattere storico e poetico.

Poiché il poeta annota queste osservazioni al mese di maggio, è chiaro che si tratta di quei presepi che erano mantenuti in pianta stabile, perché costituissero oggetto di ammirazione per i visitatori. Del resto sarebbe stato piuttosto difficile disfare un presepe di notevoli dimensioni: senza contare che la struttura, lo “scoglio”, aveva anche la funzione di supporto per l’esposizione delle splendide statuine rivestite di abiti sontuosi, fatti di stoffe sottilissime e quindi da maneggiarsi il meno possibile e con molta cura.

Anche più ricco di particolari è, a questo riguardo, C.A. Mayer, autore, nel 1840, di un libro dei suoi viaggi in due volumi. Lidia Croce, la figlia del grande filosofo, ne fece una scelta che tradusse e pubblicò nel 1948, con il titolo Vita popolare a Napoli nell’età romantica (Bari, Laterza. Il passo riportato è alla p. 289):

 A Natale hanno una parte molto importante i cosiddetti “presepi”: essi rappresentano la nascita del Sal­vatore nella stalla del paesaggio. Quasi in ogni casa ve n’è uno e sono spesso fabbricati con molta arte, taluni prendono più stanze. Si vedono qui personaggi in antiche e nuove fogge, anche in costume napo­letano, i più vari arredi, capanne, case, antichità, fiumi, ponti, monti, fatti di stoffa, di cartone, di legno, di porcellana smaltata, e di altro mate­riale. Vedi qua una donna che stende panni sul tetto, un panettiere che inforna del pane, un Pulcinella che si prende per il naso, cortei funebri, soldati che fanno l’esercizio e centi­naia di altre scene, che talora sono perfino commoventi. L’inverno pas­sato visitai, pigiato in una folla numerosissima, a causa di ciò dovette essere messa una guardia, uno splendido presepe che stava al centro di una stanza, ricoperto da una coppa di vetro, in modo che gli si poteva girare attorno e ammirare a ogni lato nuove rappresentazioni. Vi erano in esso almeno cento figure, graziosamente eseguite. In una grotta si vedeva Maria col Bambino Gesu e Giuseppe, gli Angeli e i pastori da una parte e i tre re magi inginocchiati davanti alla Vergine. Sul monte veniva il loro seguito, in parte bianchi, in parte mori, a piedi e a cavallo, su bestie da soma e a cammello, e portava ogni sorta di tesori: splendidi suppellettili, pietre preziose, bacini colmi di carlini nuovi e di monete d’oro napoletane.

Il proprietario del presepe, un prete molto anziano, spende tutto il suo avere in questi ornamenti che formano tutta la sua ricchezza. Stenta tutto l’anno per poter aggiun­gere ogni Natale ancora un paio di figure e di pezzi d’oro. Ed è felice al pensiero di possedere il più bel pre­sepe di Napoli che vale qualche migliaio di ducati. Si dice che lo abbia lasciato per testamento al re.

Il presepe descritto da Mayer è abbastanza articolato e lo scrittore vi riconosce gli episodi dell’”annunzio ai pastori” e dell’ “adorazione dei Magi”. Interessante è anche la presenza di Pulcinella, la maschera originaria di Acerra, che acquisì la cittadinanza di Napoli, fino a diventarne uno dei simboli.

Questi presepi, che si collocano in quel tipo che noi abbiamo definito “presepe colto”, erano (e sono) popolati da figurine in fil di ferro e stoppa, con la testa di terracotta e le mani e i piedi quasi sempre in legno, splendidamente vestiti di abiti in proporzione che ripetevano esattamente la maniera di vestire dell’epoca.

Quello che più impressionava il visitatore (e lo impressiona ancora oggi) è la ricchezza, la varietà, la precisione dei particolari,  che restituiva l’immagine viva del popolo di Napoli.

In una bella pubblicazione del settimanale “Epoca”, negli anni Settanta del secolo scorso, Mia Cinotti definiva il presepe settecentesco appartenente al conte Tommaso Leonetti “un inno al popolo di Napoli”.

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Un’altra pregevole pubblicazione è quella edita da Sadea-Sansoni, dedicata alla collezione di Eugenio Catello, con testi di Franco Mancini e fotografie di Giacomo Pozzi Bellini. Sulla copertina reca l’immagine di una ricca contadina, opera di Nicola Ingaldi.

Certo, di fronte a queste immagini sontuose, impressionanti per la loro realistica somiglianza con la vita reale, le umili statuine di terracotta del presepe popolare rischiano di farci una ben misera figura: eppure, non trovi che, forse (cosa di cui io sono convinto e che da anni cerco di dimostrare) dal complesso di quelle figurine si sprigiona la forza e la luce di una verità più profonda?

 

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