Il mistero vita-morte-risurrezione è stato al centro della conversazione con un vecchio amico che vive a Cassino: abbiamo parlato del presepe, in ricordo della moglie, da poco andata in cielo.
Giovanni Di Fiore è un mio amico di vecchia data. Uno di quegli amici che, possono passare anche dieci anni, ma ritrovi sempre come se lo avessi lasciato solo qualche sera prima.
L’ho conosciuto qualcosa come mezzo secolo fa, quando faceva con zelo e dedizione il portiere in un palazzo signorile nella zona di MontediDio, a Napoli. Ma, veramente, qualunque cosa Giovanni abbia fatta, l’ha fatta sempre con passione, competenza e precisione.
Nato a Rionero Sannitico, dove ha trascorso l’infanzia e la prima gioventù, fino alla chiamata alle armi per quell’immensa carneficina che fu la seconda guerra mondiale, ha lavorato in diversi campi, sempre rimanendo però in fondo al cuore legato alla terra e alla cultura contadina. Buona parte dell’amore per la natura e della passione per la botanica la devo a lui.
Ritornato dalla guerra, ha sposato Concetta, dalla quale ha avuto due figli. Il matrimonio è stato uno dei più felici che ho conosciuto: non sono mancati contrarietà e dolori, anche gravi, tutti affrontati con la forza che ai veri credenti conferisce lo Spirito Santo, nella cui azione i coniugi Di Fiore non hanno mai cessato di credere. Non saranno mancati neppure, come in tutte le famiglie, dissapori, contrasti e malumori: ma, se ci sono stati, anche questi sono stati superati grazie allo spirito di carità e alla saldezza di un amore reciproco.
Da alcune settimane, Concetta ha lasciato la sua forma terrena e la sua anima ha fatto ritorno a quella che per un credente è la vera patria. Giovanni è saldo nella fede nell’immortalità dell’anima, ma non può non sentire dolorosamente la perdita della compagna che ha avuto accanto per sessantanove anni. La speranza cristiana non è una più o meno fiduciosa aspettativa, ma è la certezza di una realtà che la fede rende più sicura di questa stessa opaca esistenza terrena: non so se ricordi quei versi con cui Dante fa eco a Paolo Apostolo:
fede è sustanzia di cose sperate
ed argumento de le non parventi.
“La fede è realtà sostanziale di ciò che speriamo e prova di ciò che non ci appare alla vista sensibile”.
Ma questa certezza non impedisce il dolore nell’avvertire una mancanza: Gesù stesso pianse davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, che pure stava per richiamare alla vita terrena. Forse pianse pensando alla dolorosa soglia che l’amico aveva dovuto attraversare e che avrebbe dovuto anche Lui affrontare di lì a non molto: “Padre, se è possibile, passi da me questo calice…”
La solitudine di Giovanni, senza la sua Concetta, è dolorosa, certo. E penso al presepe, alla Sacra Coppia nell’umile stalla in cui Gesù deve nascere. Maria e Giuseppe sono indissolubilmente legati, per questo sono l’immagine più pura e più bella della Famiglia, l’esempio e il modello per ogni coppia di sposi.
Che farebbe Giuseppe, senza la sua Maria? Che sarebbe stata la sua vita, se non avesse avuto il coraggio di credere all’Angelo e di accogliere il suo invito a prendere con sé Maria, la sua sposa?
Lo ricordi? Si tratta di quel bellissimo passo del vangelo di Matteo: prima che i due promessi vadano a vivere insieme, Maria si trova incinta. Con poche parole, l’evangelista delinea il dramma che si svolge nell’animo di Giuseppe:
Maria, madre di Gesù, era promessa sposa a Giuseppe. Ora, prima che i due andassero a vivere insieme, ella si ritrovò incinta per opera dello Spirito Santo. E Giuseppe, essendo giusto, e non volendo additarla al vituperio, decise di ripudiarla di nascosto. Mentre nell’animo rivolgeva questi pensieri, ecco che il Messaggero di Dio gli apparve in sogno e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non avere paura a prendere con te Maria: ella è tua sposa. E ciò che è stato concepito in lei è dallo Spirito Santo”.
Bisogna sapere leggere tra le righe, per comprendere pienamente il dramma di Giuseppe: o meglio, sapere aggiungere le parole di cui l’arte dell’evangelista fa a meno. “Giuseppe, da un lato, era un uomo giusto (e, come tale, non poteva violare la Legge, prendendo con sé un’adultera), ma, dall’altro, (avendo pietà per la sua donna) non voleva esporla alla pubblica infamia (che comportava per la donna la crudelissima pena della lapidazione): per questo, prende la decisione di ripudiarla (secondo la Legge), ma in segreto (così che ella possa evitare una morte infamante)”.
La lotta interiore è molto violenta, come lascia intendere la parola greca usata, e alla fine Giuseppe cade in un sonno profondo, forse inviatogli da Dio stesso, perché possa accogliere le parole dell’Angelo: “Non avere paura di prendere con te Maria, la tua sposa”.
Sulla totale fiducia, in Dio e nel coniuge, trova il fondamento ogni famiglia che deve confrontarsi ora per ora con la durezza e le difficoltà del vivere quotidiano.
Questo è l’insegnamento che viene dal presepe, ogni volta che, nella grotta, disponiamo le statuette di Maria e di Giuseppe, ai lati della mangiatoia in cui dovremo collocare, a mezzanotte, il Bambinello, in cui si esprime tutta la fragilità del bambino umano, in cui il Divino ha voluto manifestarsi.
Il Bambino Gesù apre le braccia ad accogliere gli uomini, e in quel gesto vi è un presagio della croce con la quale li riscatterà dal peccato e dalla morte, ma anche la promessa del trionfo nella resurrezione: se su quelle manine aperte si sanno leggere le piaghe che il Risorto presenterà al Padre, finalmente placato. Per questo mi dichiarai contrario all’espressione “il presepe di Pasqua“: nel tradizionale “presepe di Natale” è già contenuto, per chi vuole leggerlo, il mistero totale della Incarnazione, Passione, Risurrezione del Signore Gesù.
Nel breve spazio della scena essenziale del presepe è racchiuso, dunque, il significato del ciclo che dalla vita riconduce alla Vita, ma attraverso il dolore e la morte.
Non so se ci hai fatto caso: il volto della Madonna è sempre velato di una dolce mestizia, pur nella gioia della nascita del Figlio.
Quando ero ragazzo, mi soffermavo spesso nella contemplazione di un quadro dipinto da mio padre Vincenzo, che era scultore a San Gregorio Armeno: era una Sacra Famiglia, con il Bambino che gettava le braccia intorno al collo della madre; sullo sfondo, un po’ in ombra, il vecchio Giuseppe guardava con tenerezza la sua giovane sposa. Mi piacevano l’azzurro e il rosa dell’abito della Madonna, ma soprattutto mi incantava l’espressione del suo viso dolcissimo, della cui malinconia non ero ancora in grado di darmi una spiegazione.
Me la diedi in seguito, e anche in seguito appresi che l’originale era del pittore Pompeo Batoni, del quale mio padre aveva eseguito una copia fedelissima, probabilmente attratto da quegli stessi aspetti che avevano affascinato me (il quadro è esposto alla Pinacoteca Capitolina di Roma. L’immagine è tratta da questo sito).
Ogni madre, nel mettere al mondo un figlio, spera per lui una vita lunga, felice, priva di amarezze e colma soltanto di felicità. Maria sa di non avere partorito suo Figlio alla gloria e agli onori di questo mondo, ma a quella sofferenza necessaria per la salvezza di tutti. Sulle sue fragili spalle di ragazza pesano il destino del Dio fattosi Uomo e quello dell’umanità intera.
C’è un’altra immagine che voglio mostrarti, di fronte alla quale mi fermo molto spesso ed ogni volta mi appare più bella e più nuova. Si trova nella chiesa di San Pietro a Maiella in Napoli (la chiesa è dedicata non all’apostolo, ma all’abate ed eremita Pietro da Morrone, che fu papa con il nome di Celestino V).
Un frammento di affresco, quasi per miracolo sfuggito alla distruzione: la Vergine Maria colta nel momento di allattare il Figlio. Si tratta di una raffigurazione frequente nell’arte ed è conosciuta sotto il nome di “Madonna del Latte” (Virgo Lactans). In questa iconografia, il Bambino volge lo sguardo verso lo spettatore, a ricordagli, forse, che si è incarnato proprio per lui. In questo frammento è anche la Madonna a guardare il fedele. Nel suo sguardo leggo tristezza e pena, forse anche un rimprovero per la nostra ingratitudine, per la nostra durezza di cuore e la nostra indifferenza.
Sono andato a trovare Giovanni Di Fiore a Cassino, dove risiede da una decina di anni. Abbiamo parlato a lungo, trattenendoci sugli argomenti, che costituiscono la sostanza di questo articolo: un ricordo tira l’altro, abbiamo rievocato la nostra comune passione per il presepe, di quando, una volta ne allestimmo uno insieme.
Per me è stato triste non ritrovare Concetta. Quante volte, nella casa a pianterreno a MontediDio, o in quella a Rionero e anche a Cassino, mi aveva accolto alla sua tavola, con quell’affetto e quella naturalezza che contraddistinguono le persone semplici e davvero buone.
Non ci diciamo addio, ma semplicemente arrivederci, Concetta: perché, se il tuo corpo fu affidato alla terra, il tuo spirito è accanto a Giuseppe e a Maria a prepararci un posto nel grande presepe del Cielo.
Grazie caro Italo per la bellissima riflessione sulla fiducia e sulla famiglia. L’articolo è molto commovente, però vorrei farti una domanda, ma più teologica che presepistica: quando parli del saper leggere quelle manine aperte di Gesù Bambino, perché aggiungi, riferite al Padre, le parole “finalmente placato”?
Ciao
Mariano
Caro Mariano, mi riferisco al “peccato originale”, in seguito al quale Dio Padre era “adirato” con l’umanità, esclusa dal Paradiso e dalla visione di Dio. Il sacrificio del Figlio, manifestatosi in Gesù Cristo, “placa” il Padre, che così ci ammette alla sua amicizia e ci riconosce nuovamente come suoi figli. Si tratta di una concezione teologica espressa in un linguaggio umano dalla forte caratura poetica. Grazie per l’attenzione e l’affetto con cui mi segui. E se non sono stato chiaro, dimmelo: mi sforzerò di esserlo maggiormente.