Il pazzariello era il banditore del vino nuovo, una figura tra il patetico e il tragico; è uno dei mestieri scomparsi di Napoli. Lo rievoca in una pagina anche Giovanni Artieri. Credo di essere stato il testimone dell’ultimo pazzariello napoletano. Da qualche tempo, gli artigiani di San Gregorio Armeno ne modellano la statuina per il presepe.
Il pazzariello, tra i mestieri scomparsi di Napoli, è quello che, per l’etimologia stessa del nome, esprime appieno l’anima napoletana, portata naturalmente all’ironia e soprattutto all’autoironia, come scrivevo qui, commentando una pagina di Giovanni Artieri.
– Guaglio’, ma tu vuo’ pazzia’? – “Giovanotto, vuoi scherzare?” si dice a chi la spara troppo grossa.
Il napoletano “pazziare”, scherzare, giocare, qualche etimologista lo fa derivare dal verbo greco pàizein, “giocare”, ma questa etimologia ha ben poca probabilità di essere vera. Anche se Napoli è l’ultima città a conservare qualcosa dell’antico spirito greco, come ho spesso detto e talvolta scritto, la parola “pazziare” ha ben altra origine ed è connessa con la parola “pazzo”. Segno che a Napoli, città seria, ma non seriosa, non ci si è mai preoccupati troppo di stabilire un limite netto tra follia e saviezza, poiché un pizzico di follia è pure ritenuto necessario per tirare avanti la vita. Come ricorda Giovanni Artieri in Napoli Nobilissima, uscire davvero di senno, impazzire, si dice (o almeno si diceva una volta) “andare in fantasia”
con senso di viaggio: una forma traslata, simile a quella adoperata da Carmelina la tarantellara del Salto di Tiberio, a Capri, che dei suicidi romantici morti negli abissi di roccia diceva: “Sono caduti nell’antichità” (p.93)
Il pazzariello è una figura conosciuta ai più attraverso la magistrale interpretazione di Antonio De Curtis, in arte Totò, nel film L’oro di Napoli, tratto dal libro di Giuseppe Marotta, il nostro grande scrittore di cui già ti ho parlato qui e qui. Una storia dal pathos profondo, in cui, alla fine, non sai se provare pietà più per il pazzariello, pover uomo angariato in casa propria dal prepotente di turno, o se per il prepotente che, non pensando di esserlo, scopre con dolore di essere un insopportabile peso per la gente da cui credeva di essere amato. La comicità nasconde sempre un lato tragico, e la tragedia rivela qualche tratto di comicità, così che “A Napoli, Sofocle va a braccetto con Pulcinella”, come scrive non ricordo dove Giuseppe Marotta.
Il De Bourcard, in Usi e costumi di Napoli e contorni, registra quello che poi si chiamò pazzariello, sotto la qualifica di “banditore di vino” e ne mostra una bella immagine che ti riporto, insieme al proclama che rivolgeva al popolo:
Uommene e femmene, nobele e snobele, ricche e puverielle, a o vico … s’è aperta na nobele cantina, attaccata a o postiere, derempetto a o pizzajuolo; se venne lo vino asciutto a nu rano e a ddì rà a caraffa. Currite!
Per i non napoletani, è opportuno “tradurre”:
Uomini e donne, nobili e popolani, ricchi e poveri, al vico … è stata aperta una nobile cantina, accanto al botteghino del lotto, di fronte al pizzaiuolo; il vino asciutto si vende a un grano, e a due grani la caraffa. Correte!
Ma forse anche qualche napoletano resterà perplesso dinanzi all’espressione “nobele e snobele (anche sdobele, si diceva)” per indicare l’intera popolazione. Nella figura, poi, è piacevole cogliere il gesto del “banditore che porge un assaggio di vino. Non più che un assaggio, naturalmente, quel tanto che basta per farne provare la bontà.
Non so dirti quando la figura del banditore si trasformò in quella del pazzariello, rivestendo una divisa militare dagli sgargianti colori e mettendosi a capo di una piccola banda musicale. Ti riporto qui di seguito come il Dizionario napoletano di Antonio Altamura definisce il pazzariello:
banditore che, rivestito di vistose uniformi, celebra con filastrocche l’apertura di nuovi negozi (spesso di vini) accompagnato da una piccola banda musicale.
Giovanni Artieri, in alcune pagine del libro che ti ho presentato, scrive anche di questo personaggio del mondo popolare napoletano, il pazzariello, notando, tra l’altro, come nessuno degli scrittori di cose napoletane ne abbia parlato, neppure Di Giacomo, né la Serao o Ferdinando Russo.
Il pazzariello è scomparso dai vicoli e chiassoli dei “quartieri” a monte di via Toledo; delle “salite” e “rampe” tra Cariati e San Martino. E’ scomparso, probabilmente, anche dai dedali della parte egizia, greca, fenicia, bizantina di Napoli: Forcella, San Gregorio Armeno, via Nilo, l’Anticaglia, Sant’Agostino alla Zecca.
Era il banditore del vino nuovo, vestito di carta colorata, in feluca, spadino, armato di un tirso bacchico, alla testa di un’orchestra di tamburi, pifferi, trombe, clarini. Si recava ad annunciare l’arrivo delle botti, tra mille fischi, capriole, stravaganze, filastrocche e battimani nei luoghi della plebe, cioè dove abita la carne della città e la sua forza e il suo spirito (pag. 94).
Artieri parla del pazzariello con toni nostalgici e poetici: ti invito a considerare l’espressione “armato di un tirso bacchico“: con “tirso bacchico” lo scrittore designa il lungo bastone da “tamburo maggiore” con il quale il pazzariello guida la banda e scandisce il ritmo della musica. Non è affatto fuor di luogo, perché il tirso era un lungo bastone, con in cima una pigna, insegna dei seguaci del culto di Bacco, dio del vino.
Giovanni Artieri scriveva nel 1955 e del pazzariello parlava, quindi, come di un mestiere scomparso già ai suoi tempi.
Da alcuni anni, gli artigiani di San Gregorio Armeno hanno però recuperato per il presepe anche la figura del pazzariello. Te ne presento due esemplari, del laboratorio di Fulvio Forte, che ringrazio per il permesso di fotografare e pubblicare questi due bei pezzi, colti sullo scaffale stesso della bottega, davanti ai piccoli busti di Eduardo e di Totò.
L’importanza di “fare il presepe”, come vedi, risiede anche in questo recupero della memoria. Quante cose antiche cadrebbero nella dimenticanza, se non vi fossero i “maestri pastorari” a salvarne il ricordo.
Ma io ho potuto ammirare ancora un pazzariello in carne e ossa e uniforme, all’opera negli anni Settanta. Era alto e imponente, e lo avresti detto un generale della Guardia Imperiale di Napoleone, nella sua divisa lustra e sgargiante, dalle spalline dorate, con l’aspetto fiero e compreso del suo ruolo, cui sapeva dare regale importanza, alla testa della piccola banda di pifferi e tamburi, seguita da un’allegra turba vociante e schiamazzante di ragazzi dei vicoli, che si davano la voce: “Guagliù, currite … ‘nce stà ‘o pazzariello…!”.
Ricordo la voce stentorea che tuonava: “Battagliò …! ” (e qui strepitoso rullar di tamburi) “… spara ‘o cannò! “…. (altro rullar di tamburi) “…cu tutto ‘o trumbò” … e così via, fino all’annuncio finale che il miglior vino si comprava a buon prezzo alla cantina di Don Antonio, in via dei Cristallini …
Poi, nell’accelerazione storica che il nostro tempo comporta, nessuno sentì più bisogno di quella bonaria e umanissima forma di pubblicità.
Lo rividi, un giorno, il “mio” pazzariello, che, abbandonati i vicoli e le piazze popolari, in cui era stato signore, si aggirava mestamente per l’elegante via Toledo, ancora nella sua divisa napoleonica, ormai logora e frusta, senza banda e senza corteo, a tendere umilmente la mano alla stentata generosità dei passanti. Le spalle leggermente incurvate sotto il peso degli anni e della fortuna, mostrava tuttavia una dignità che la miseria non aveva potuto cancellare. Fu con profonda pena che, quasi vergognandomi, gli offrii il mio obolo di umana solidarietà. Ciò che feci tutte le volte che lo incontrai.
Poi, e fu triste, non lo vidi più. Probabilmente aveva pagato il suo tributo alla natura, ubbidendo alla legge comune.
E ora immagino che oggi egli sia in Paradiso, ad annunciare, al cospetto del Signore, che “Don Antonio tene ‘o vino buono, tene ‘o vino buono, tene ‘o vino buono …”.
E il Signore al pazzariello sorride, Lui che di vino buono se ne intende, visto che con il vino operò il suo primo e il suo ultimo, il più grande, dei miracoli.
Riposa in pace, ultimo pazzariello di Napoli, insieme a tutta la schiera dei pazzarielli, voi che, per lunghi anni, portaste un raggio di allegria e di sole, in vicoli dove il sole non giunge, dove gli unici raggi di sole sono i brandelli di umanità che si fanno incontro a chi li sa cogliere.
Una figura magistralmente interpretata da Totò, ma poco conosciuta nella sua dimensione umana: che storia emozionante hai saputo raccontarci, caro Italo.
Non conoscevo, poi, gli scritti di Artieri e ti sono grato: la frase riferita ai luoghi della plebe: “cioè dove abita la carne… e il suo spirito” fotografa in modo autentico quei quartieri, il ventre di Napoli.
GRAZIE!!!
Un mio amico ha un’interessante interpretazione sulla scena del film: ma è così “taccagno” che, dopo avermela detta a voce, non ha voluto scrivermela.
La capacità di coinvolgimento della sapiente parola di Italo è cosa nota. Questa volta il fascino della sua eloquenza si è superato. Non posso non sottolineare che il Pazzariello, come ha fatto notare Italo, è il prodotto di una cultura sovrapposta: quella greca, tragica, Sofocle,e quella romana di PLAUTO, Pulcinella. Ciò che mi preme, però, è ricordare l’amore che Italo porta per Giuseppe Marotta, che a proposito del Pazzariello riesce magistralmente ad aggiungere agli strati greco e romano, un intreccio psicologico e sociale sulla figura tragico-comica del pazzariello, trasferendolo nei panni di Totò e del guappo di quartiere. Nel primo disegna la patetetica persona del capofamiglia, sottoposto alla prepotenza del guappo, che addirittura gli sottrae l’autorità paterna (vedi la scena del figlioletto che con senso di ammirazione calza le scarpe al guappo rifiutandosi di farlo al padre). Nel secondo, Marotta riesce con sorprendente profondità a far emergere, perfino nella figura del prevaricatore il seme della speranza (infatti, dopo che ha saputo che non è più affetto da cardiopatia, il guappo non ritorna ad esercitare la sua prepotenza, ma riconosce il suo errore e lascia quella casa alla normale quotidianità. Diverso invece è l’epilogo o se vogliamo il comportamento del pazzariello, il quale dà fondo a tutta la sua collera ribellandosi al guappo, ma solo perché ha saputo della sua debolezza, non offrendo nessun segno di perdono.
Un commento prezioso, caro Giuseppe, degno del filosofo quale sei. In effetti, il “guappo” è decisamente antipatico, ma fa pena nella sua debolezza. Il comportamento del “pazzariello” mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca, per una mancanza di pietà che non trova giustificazione neppure in tutte le angherie subite.Con queste analisi si può essere o no concordi, ma certo Giuseppe Marotta è davvero grande.