L’oste è una delle figure “irrinunciabili” sul presepe: egli rappresenta l’avversario per eccellenza, che, con il richiamo dei beni terreni, intende condurci lontano dal retto cammino. Ma, seppure involontariamente, coopera sempre con il progetto di Dio.
Quando, sul presepe, guardi la figura dell’oste, che reca dei fiaschi di vino o una trionfante zuppiera coi maccheroni, non lasciarti ingannare dalla sua figura bonaria e pacioccona: in realtà, sotto il suo bianco grembiule si cela il nostro Antico Avversario, colui che, dopo avere perduto il Paradiso per il suo smisurato orgoglio, si provò a trascinare, per invidia, il genere umano nella sua stessa miserabile condizione.
Colui che, dopo averci allettato proponendoci “false immagini di bene” (Dante), sarà il nostro accusatore, quando ci presenteremo dinanzi al trono di Dio: perché la parola “diavolo” questo significa, l’accusatore.
Una immagine di Gustave Doré, per illustrare il Paradiso Perduto di John Milton, mostra Satana che, invidioso della felicità di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, medita la loro rovina,
La figura dell’oste non può mancare sul presepe. Se le discese del paesaggio presepiale rappresentano il cammino verso l’illuminazione e la vera conoscenza di sé, non è pensabile che questo percorso sia privo di pericoli e che lungo di esso non si presentino tentazioni e conflitti.
Perché l’uomo è un campo di battaglia dove perpetuamente si confrontano il bene ed il male. L’uomo, anima e corpo, è sempre oggetto di una scommessa tra Dio e il diavolo. Ricordo una frase che viene attribuita a diversi Santi: all’ateo che dice di non credere in Dio, il Santo risponde: “Non importa. Lui crede in te”.
Sai dove e quando è nata questa bellissima idea che l’uomo ha la responsabilità di non fare perdere a Dio la sua scommessa con il diavolo?
Non saprei dirti esattamente quando, ma posso dirti che si trova espressa in una storia che è una delle più antiche del nostro mondo: nacque, probabilmente, in quella che con parola greca si disse la “terra fra i due fiumi”, la Mesopotamia.
Redatto in forma letteraria, questo racconto costituisce uno dei massimi capolavori della letteratura di tutti i tempi e non solo della storia religiosa di Ebrei e Cristiani.
Sicuramente conosci questa storia: magari, se non l’hai letta, l’hai ascoltata, anche se, forse, in una forma che lasciava spazio al fraintendimento: è la storia di Giobbe, narrata in un libro della Bibbia.
Ho scritto fraintendimento: è infatti passata in proverbio la “pazienza di Giobbe”.
Ma Giobbe non è affatto paziente; si lamenta delle sue sventure che sa di non meritare. Si lamenta, sì, eppure non fa perdere a Dio la sua scommessa su di lui.
Ti richiamo la storia.
Il Signore, dopo avere creato il mondo, teneva di tanto in tanto un’assemblea cui partecipavano i suoi Angeli. Qualche volta anche Shatàn si presentava al cospetto di Lui, per rendergli conto di ciò che aveva fatto in giro per l’universo.
Il suo nome, Shatàn, o Satana, significa, nell’antica lingua ebraica, “avversario”: tradotto in greco è diabolos, il nostro “diavolo”, appunto. Avversario, naturalmente, di Dio, contro il quale può fare ben poco, e avversario, naturalmente, degli uomini, contro i quali può fare, invece, molto.
Quella volta si presentò, dunque, alla corte di Dio, che lo accolse con la solita equanimità. E il Signore parlò di un uomo, di Giobbe, il quale viveva nel timore di Dio e nel rispetto della Sua Legge.
Ma Shatàn osservò beffardamente (e il tono del Diavolo quando non è rabbioso o sottilmente insinuante, è sempre beffardo) che per Giobbe era facile rispettare la Legge, visto che Dio lo aveva colmato di tutti i beni che un uomo può desiderare su questa terra. E infatti era ricco, aveva terre e armenti, servi e serve, e, cosa importantissima all’epoca, aveva sette figli e tre figlie, che si amavano scambievolmente. Ma, disse Shatàn, se la sventura lo avesse toccato, Giobbe non avrebbe esitato a ribellarsi a Dio.
E il Signore concesse a Shatàn di divertirsi un po’ con gli averi di Giobbe e con i suoi figli. Ma non si azzardasse a toccarne la persona.
E così Shatàn si mise all’opera. In una serie di continue sciagure, Giobbe perse tutti i suoi averi. I suoi dieci figli, poi, perirono per il crollo della casa in cui banchettavano.
Ma Giobbe non si rivoltò contro il Signore: chinò la testa e disse:
– Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia fatta la volontà del Signore.
Shatàn ritornò al cospetto del Signore. E ancora una volta parlò contro Giobbe: era vero, disse, che non si era rivoltato contro Dio, ma era anche naturale, perché aveva perso semplicemente i suoi beni e i suoi figli, ma la sua persona era salva. E, per un uomo, non c’è nulla che valga più della propria persona e della propria vita.
Così disse Shatàn. E anche questa volta il Signore acconsentì alla sua richiesta: aveva mano libera nella persona di Giobbe, ma ne rispettasse la vita.
E così, per opera di Shatàn, Giobbe fu colpito da una malattia che lo rese una sola piaga dalla cima della testa alla punta dei piedi. Eppure mai pronunziò una parola contro il Signore.
Certo, si lamentò con alti gemiti per quel suo destino così inaspettato ed anche così immeritato: perché, nella sua mentalità di uomo giusto e pietoso (che è poi la mentalità naturale dell’uomo), aveva sempre pensato che ad una condotta onesta e irreprensibile dovesse corrispondere il favore del Cielo. Ora, questa sventura metteva in crisi tutta la concezione tradizionale cui si era ispirata la sua intera esistenza nei rapporti con l’Altissimo.
Parlare quindi della “pazienza di Giobbe” non è esatto. Giobbe non ha “pazienza”, nel senso corrente del termine. Certo, è un “paziente” nel senso etimologico che è un “sofferente”, ma non soffre in silenzio. Non si ribella a Dio, ma ammette francamente di non capire la ragione delle sue sventure e se ne lagna con gemiti che salgono al cielo.
Vengono degli amici a confortarlo; ma, più che dargli conforto, con le loro presuntuose parole aggravano il peso delle sue sventure. Essi si fanno, infatti, portavoce della concezione tradizionale, secondo la quale la sventura è il contraccambio dell’empietà. Poiché Dio è giusto, sostengono gli amici, le disgrazie di Giobbe provano che egli in qualche modo è un empio. Lo invitano, quindi, alla conversione. Ma Giobbe ribadisce la giustizia e la pietà della propria vita.
Una bellissima immagine del poeta ed artista William Blake, il quale adornava con possenti figure i propri scritti, mostra Giobbe in atto di rivolgere gli occhi al cielo, ad invocare la testimonianza di Dio contro le ingiuste accuse dei suoi “consolatori”.
Alla fine, interverrà la voce stessa di Dio, che farà comprendere a Giobbe come siano insondabili le profondità del suo giudizio, ma d’altro canto redarguisce gli amici per la loro stoltezza, nel presumere di comprendere la volontà di Dio.
Ma per ora devo concludere, anche se non ho esaurito l’argomento, che merita di essere approfondito: perché la figura dell’oste non ha finito di svelarci i suoi segreti.
Non vorrai credere, infatti, che una figura o una immagine del presepe possa esprimere solo la negatività?
Prima di proseguire nel nostro cammino, mi piacerebbe sapere che cosa pensi al riguardo.
Attendo impaziente il seguito anche se vorrei farti alcune domande: ad esempio, perché secondo te Shatàn scommette contro Dio conoscendo già la Sua imbattibilità? E se poi sarà il nostro accusatore, quale potrà mai essere la sua vittoria, magari sì risicata, se sul piatto della bilancia c’è quella “discesa agli inferi” per salvare tutti, ma proprio tutti, nonché la Sua infinita misericordia?
Grazie.
Mariano
E no, caro Mariano: Dio, lasciando l’uomo libero, si è messo a rischio anche di perdere la scommessa per quanto riguarda ognuno di noi. E Shatan, l’avversario, conta proprio su questo e quindi ci prova. E non è detto che non gli vada bene. Anzi, ho talvolta paura che sia tutta intera la nostra società a fare perdere a Dio la sua scommessa su di noi. Qualche esempio? I finanzieri che, con i loro giochi con il denaro, distruggono il lavoro, che è poi quello che produce quel denaro con cui essi si sollazzano, i politici che fanno le leggi per assicurarsi l’impunità e la stabilità nella corruzione… la totale mancanza di misericordia nelle relazioni sociali e la povertà sempre crescente perché altri si arricchiscono … E papa Francesco che, nella sua coraggiosa battaglia, non ha neppure l’appoggio di tutti i suoi preti … credo che la nostra società, pur continuando a dirsi cristiana, stia facendo di tutto perché Dio perda la sua scommessa. E, secondo la teologia cattolica, della misericordia fa parte anche la giustizia: se no, alla gente di cui sopra, non varrebbe neanche la pena di dire:”State attenti, che con i vostri giochetti vi state giocando anche la vostra anima immortale”.
Scusami il ritardo nella risposta, ma sto meditando il prossimo articolo.
Io penso, caro Italo, che il buon Dio più che puntare sull’uomo abbia puntato tutto su quel santo legno della Croce e la vittoria è già nelle Sue mani. Citando proprio papa Francesco: “E la giustizia di Dio si è rivelata nella Croce: la Croce è il giudizio di Dio su tutti noi e su questo mondo. Ma come ci giudica Dio? Dando la vita per noi! Ecco l’atto supremo di giustizia che ha sconfitto una volta per tutte il Principe di questo mondo; e questo atto supremo di giustizia è proprio anche l’atto supremo di misericordia.”
Ciao
Mariano
Naturalmente non posso che essere d’accordo. Ma, nello stesso tempo, resta pur sempre il dato irrinunciabile del libero arbitrio. Nel frattempo, ho pubblicato il nuovo articolo che continua il discorso. In ogni caso, il mio discorso, più che teologico, si propone di essere antropologico: di mostrare cioè quale ricchezza di significati si cela dietro una semplice statuina di presepe. Il discorso sull’oste e sulla trattoria è tutt’altro che concluso. Grazie, ancora una volta, per l’interesse con cui mi segui.
“ho letto il racconto di Giobbe qui riportato con dovizia di particolari. Mi era stato consigliato dal mio confessore in occasione della preparazione al matrimonio sia a me che a mia moglie. Lo lessi, in parte, ma dopo quasi 30 anni di vita coniugale devo dire che sì Giobbe era paziente, ma a confronto della pazienza che ho dovuto usare io con mia moglie, e lei con me, il suo era un gioco!”
Grazie, signor Franco, di avere letto il mio articolo su Giobbe. In realtà, si tratta di un libro difficile, di cui spesso è difficile seguire il filo da cima a fondo. E comunque, se moglie e marito hanno retto alla vita coniugale, sopportandosi pazientemente, vuole dire che anche quella lettura parziale è servita allo scopo. Riprovi a leggerlo per intero. Non una volta sola. Alla terza lettura si accorgerà di quanto esso sia bello. Uno dei capolavori di tutti i tempi. Spero di rileggerLa, a questo proposito.