La nascita di Dio come uomo, nei disagi e nella precarietà dell’esistenza terrena, invitando all’umiltà ed alla fratellanza nello spirito di San Francesco, è il vero senso del Natale. La fragilità umana indossata da Dio è segno di speranza e conforto per gli infelici e gli ammalati.
Che cos’è che fa il Natale?
Le vetrine illuminate, le strade piene di gente, l’albero adorno di luci e delle classiche palle colorate di vetro?
Oppure, forse, il presepe, con la mangiatoia e il Bambinello riscaldato dall’asino e dal bue, la più antica immagine che l’arte occidentale ci ha tramandata come simbolo del Natale? A volte, la rappresentazione della Natività si limita alla mangiatoia con il Bimbo vegliato dai due animali.
L’immagine del Dio fatto uomo (il Verbo fatto carne), esposto al freddo e al gelo, come dice una celebre canzoncina devota, è il simbolo più forte per rendere visibile appieno la precarietà della nostra esistenza umana.
Nulla è, infatti, più fragile di un bambino appena nato, e se poi nasce in una grotta, perché sua madre, nonostante il suo stato, non ha trovato ospitalità nell’albergo, il simbolo acquista ancora più valore e si impone allo spirito con maggiore forza. Tant’è vero che neanche gli antichi, i cosiddetti “pagani”, rinunciarono ad attribuire ai loro dèi una nascita in condizioni di precarietà, circondata da pericoli ed insidie di ogni tipo (Ercole, Mitra, Giove stesso).
Ti voglio mostrare un quadro, una pittura su tavola di legno, conservata in un ambiente piuttosto appartato di Castel Nuovo (il celebre Maschio Angioino, che compare in tutte le cartoline di Napoli). Non ne conosco l’autore (non so se l’ho dimenticato o se non l’ho mai conosciuto), ma ricordo che, quando lo vidi la prima volta, mi impressionò profondamente. Credo che anche sulla tua sensibilità avrà un forte effetto.
Voglio, anzi, ringraziare l’amico Paolo Menduni che, avendomi ascoltato mentre parlavo di questo dipinto, si recò a farne una foto e me la inviò, così che oggi posso mostrarla anche a te.
Vi si vede la Sacra Coppia sulla soglia della stalla.
Dall’atteggiamento dei due, si comprende che hanno ricevuto un rifiuto dall’albergatore. Eloquentissimo il muto linguaggio dei gesti.
Giuseppe, raffigurato vecchio e calvo, ma con in mano il bastone fiorito che, secondo il racconto di uno dei Vangeli Apocrifi, lo fece scegliere come sposo della Vergine, mostra a Maria che in quella stalla potranno trovare rifugio. Lei, con la mano destra indica l’interno e sembra dire: “Proprio qui deve nascere ?” con un leggero velo di tristezza sul viso, perché al Figlio che sta per venire non può offrire altra culla che una manciata di fieno. Non c’è tuttavia sgomento, non c’è protesta, né rifiuto, in quell’umanissimo gesto, ma la stessa umile accettazione con cui disse il suo “Sì” al messaggero divino.
Nota come Giuseppe, per fare coraggio alla giovane sposa, muove decisamente il passo verso l’interno, mentre Maria si è arrestata sulla soglia.
In fondo alla stalla, si scorgono il bue e l’asino.
Si sente appieno l’atmosfera sospesa dei momenti che precedono immediatamente la Nascita di Dio nella Storia nel travaglio e nella precarietà della umana esistenza.
In questa scelta di Dio di nascere come uomo non nel fasto e nella potenza regale, che pure gli competono per la sua Natura, consiste il valore di consolazione che questa immagine di fragilità umana assunta da Dio ha per i poveri, i deboli, gli ammalati.
Ti ho già parlato di quando costruii una serie di piccoli presepi per le corsie di un ospedale.
Ma ho un ricordo ancora più prezioso, che voglio condividere con te.
Una volta, pochi giorni prima di Natale, il vecchio padre di un amico fu ricoverato in ospedale, per un male da cui non si sarebbe ripreso.
Il mio amico è il classico “sapiente”, naturalmente secondo il comune giudizio, un “sapientone” cioè, uno di quegli eruditi che, se ti attacca un bottone su Kant o Napoleone, è capace di parlare per ore, infilandoti un nome dopo l’altro, una data dopo l’altra, senza sbagliare un dato, senza risparmiarti un particolare. Una vera “pizza”, in fondo.
Eppure, gli manca la sapienza delle piccole cose. Così, per esempio, quella volta non aveva capito di che cosa sentiva la mancanza suo padre, in quel letto di dolore, nel giorno di Natale.
Allora, la mattina della vigilia, andai a trovare il vecchio e gli portai un Bambinello acquistato a San Gregorio Armeno. Il vecchio (credo di non avere mai conosciuto una persona così bella) voltò il viso per nascondere qualche lacrima di commozione.
Il giorno dopo, mattina di Natale, tornai a trovarlo. Mi raccontarono con vivacità che a mezzanotte il Bambinello era stato benedetto dal cappellano e che poi era stato portato in processione per tutto l’ospedale. I malati si erano alzati al passaggio; chi poteva, si era accodato alla processione: tutti si erano segnati del segno della Croce.
Ecco che cosa fu Natale quella volta: il Bambinello che passava tra gli afflitti, a portare speranza, o almeno consolazione.
E ripensando a quell’episodio, mi convinco sempre più che San Francesco, se non fu, tecnicamente parlando, l’ “inventore” del presepe, diede al Natale quell’aura senza la quale neanche il presepe ha più significato.
E per te, che cos’è che fa il Natale?
Che meraviglioso ricordo hai voluto condividere e non ti nascondo che la lacrima è venuta anche a me.
Un caro saluto
Mariano
E sì; fu bellissimo. Forse è una di quelle cose che l’Arcangelo Michele scriverà sul libro a mio favore. Almeno lo spero. Grazie per la tua fedeltà alle mie pagine.