Il monumento al contadino, eretto sulla piazza principale di Pitigliano, e simile alle figure presepiali, invita alla riflessione sulla dignità del lavoro, alla luce del messaggio evangelico.
Non so se conosci il monumento al contadino di Pitigliano, una splendida cittadina nella provincia di Grosseto, in quello che fu antico territorio degli Etruschi: vi si arriva dopo avere percorso una serie di curve. All’ultima curva, al di là di una profonda vallata, essa appare con le sue mura e le sue torri, con una vista che ha dello spettacolare. L’emozione che se ne riceve è simile a quella che si trae dalla vista del burrato di S. Agata dei Goti, nel Beneventano, di cui ho già scritto a proposito del presepe alfonsiano. Due immagini simili, entrambe da togliere il fiato.
All’inizio di un tiepido autunno ero a Roma per le mie consuete ricerche epigrafiche; una sera, a cena, mio nipote Roberto mi fa, quasi a bruciapelo: “Zio, e se domani andassimo a Pitigliano?”
C’ero stato una volta, in gioventù e non ci ero più tornato, poiché con i mezzi pubblici la cittadina non è facilmente raggiungibile. Ma, quando si è giovani, si è pronti ad affrontare qualunque disagio, per vedere e conoscere. Quando ci si fa un po’ più anziani, è tutt’altra faccenda: sicché la proposta di Roberto, di un comodo viaggio in automobile, per rivedere quel centro di antica civiltà, incontrò il mio entusiastico consenso. Come ho già notato più volte, solo andando si conosce, come ribadivo nell’articolo sull’opera di Stanislao Nievo, Aurora, nel quale parlavo della Porta Magica di Roma, tra madri, zingare e mendichi.
E così, il giorno dopo, ci recammo a Pitigliano.
Non ti voglio però ora parlare degli Etruschi, o degli Aldobrandeschi, o del quartiere ebraico che è valso alla cittadina il titolo di “Piccola Gerusalemme”.
Non ti parlerò neppure della “fontana delle Sette Cannelle”, che è molto bella e che, con i suoi mascheroni, rimandò il mio ricordo alla fontana dell’Annunziata a Napoli; magari lo farò un’altra volta.
Adesso voglio parlarti di quella che per me è stata una vera e propria sorpresa, perché, quando mi recai a Pitigliano in gioventù, non c’era ancora sulla piazza principale il monumento “al villano”, al contadino. Si trova in fondo a piazza della Repubblica, dall’altro lato della fontana delle Sette Cannelle. Un monumento al lavoro, in particolare a quello che è il lavoro fondamentale, il lavoro della terra, celebrato senza trionfalismo, senza la retorica tipica di un’arte ideologicamente e politicamente schierata e francamente stucchevole.
Nulla di retoricamente celebrativo: un contadino dall’aspetto umile, nella sua profonda dignità, accanto all’asino, suo inseparabile compagno di fatica.
Dirai forse che sono maniacalmente fissato, se ti dico che immediatamente il mio pensiero corse al presepe? Eppure, quante volte tu stesso avrai collocato sul tuo presepe il contadino che, accompagnato dal suo asinello, si reca alla grotta dove nasce il Bimbo Divino a presentargli il frutto del suo duro lavoro.
Anche l’asino ricorda da vicino uno di quelle bestie da soma che sono parte integrante di ogni presepe che si rispetti, perché il presepe, soprattutto nella sua variante popolare, che è quella che a me è sempre interessata (devo richiamare qui la distinzione che operai fin dall’inizio tra presepe popolare e presepe colto), è esso stesso un monumento al lavoro degli uomini e dei loro compagni a quattro zampe.
Ti mostro, qui, la statuetta di un muletto, con il suo basto, tratto dal presepe realizzato in casa Scognamiglio.
Lo scultore del monumento, Mario Vinci, ha poi impresso sul volto del suo contadino quel senso di pensosa dignità e di fierezza, contenuta dall’umiltà, proprio di chi è abituato a vivere con l’opera delle sue mani.
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Sul presepe sono raffigurati i più vari mestieri: dopo avere collocato i personaggi che ho definito “irrinunciabili” e che configurano la rappresentazione nella sua versione “popolare” come un “insieme di simboli”, ogni “presepista” lascia alla fantasia le briglie sciolte per dare vita a scene di genere che conferiscono vivacità e ampliano il già profondo significato del presepe.
La rappresentazione dei vari mestieri consente, infatti, di gettare uno sguardo sulla vita di ogni giorno ma induce anche a riflettere su un dato importante: il mondo del lavoro circonda a buon motivo la grotta dove avviene la nascita del Dio che si fa uomo, perché il cristianesimo ha circonfuso di una intensa luce spirituale quel lavoro manuale così disprezzato presso gli intellettuali greci e romani. Credo che ricordi anche tu quel celebre aneddoto che racconta del grande matematico greco di Siracusa, Archimede, il quale distrusse i suoi geniali congegni, perché l’attività manuale toglieva dignità alla contemplazione, la “teoria”, delle verità matematiche e fisiche.
Il Vangelo parla, invece, fin dall’inizio, di una giovane, di nome Maria, promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, che era “falegname” (forse, con più precisione, un capomastro, ma la sostanza non cambia). Suo figlio Gesù continuò probabilmente a esercitare il mestiere dell’uomo che lo aveva accolto come figlio: e, quando venne il momento di dare inizio alla sua missione, scelse i suoi compagni non nelle scuole dei filosofi greci o tra i dottori delle sinanoghe, ma li cercò tra i pescatori, i pubblicani ed altra gente simile. “Venite con me: vi farò pescatori di uomini“, disse ai primi che chiamò alla sua sequela. Gli uomini non si attirano con le chiacchiere, ma con l’esempio.
Ed è questa la ragione per cui l’apostolo Paolo, accolto come ospite a Roma, non volle gravare su chi lo ospitava e si mise a lavorare. Un bellissimo testo dei primi decenni del cristianesimo, la Didakè, cioè “l’insegnamento” degli Apostoli, distingue tra il vero e il falso profeta mediante un semplice indizio. Il primo è colui che non grava sulla famiglia che l’ospita per più di tre giorni e che si mette a lavorare per vivere, il secondo è quello che pretende di vivere alle spalle della comunità, con il pretesto di essere un “profeta”.
Nelle chiese del Medioevo, poi, i mestieri sono spesso raffigurati nell’ornamentazione scultorea o pittorica. Per ora, mi limito a mostrarti questa bella immagine di un fabbro e di un bottegaio, come appaiono in un affresco della chiesa di S. Maria in Foro Claudio, a Ventaroli, che è una frazione di Sessa Aurunca. La foto mi fu data dal mio amico, di beata memoria, don Giuseppe Rassello, parroco di S. Maria della Sanità in Napoli.
Ma, nella rappresentazione presepiale, sul mondo del lavoro incombe una presenza inquietante: il Castello di Erode, che è il luogo dove si medita “la strage degli innocenti”, ma anche il luogo del consumo parassitario di ciò che il lavoro produce.
Il monumento al contadino di Pitigliano mi ha portato lontano: e temo che, su questo argomento, sarà necessario procedere oltre.
Non ti ho detto più volte, ormai non so neppure io quante, che non si fa il presepe per semplice desiderio di “modellismo”, ma per pensare e fare pensare? E, di questi tempi, credi che ci sia qualche argomento più degno di attenzione che il lavoro e la sua dignità, costantemente umiliata?
Il contadino , il cafone di Silone, con il suo compagno uniti dal duro lavoro dei campi. Il somaro del presepe Scognamiglio ci riporta al Presepe con le scene di vita quotidiana, al racconto delle vicissitudini umane, alla contrapposizione tra potenti e popolo. Come le figure del presepe anche il monumento trasmette un senso di pace, di serenità, un ’immagine di armonia dei campi coltivati. L’uomo con il suo lavoro stringe un patto con la natura, partecipa al ciclo della vita, non è più solo consumatore ma anche produttore
Grazie, Guido, di avermi ricordato il “cafone” di Ignazio Silone. Credo che ti riferisci al bellissimo “Fontamara”, che è un capolavoro della letteratura d’ispirazione contadina. Sul lavoro come “patto con la natura” ritorneremo, se mi dai una mano.
E’ molto bello pensare al presepe anche come inno alla dignità del lavoratore. Ho sempre avuto simpatia per il mulo che spesso vi si mette con la sua espressione stanca e a volte anche un po’ triste. Sono laureato e dopo un lungo periodo di disoccupazione ho trovato lavoro in un maneggio, dove pulisco le stalle ai cavalli. E’ un lavoro duro ma tra fieno ed animali non posso fare a meno di pensare anche un po’ al presepe. A proposito vorrei chiederLe cosa ne pensa del collocare la Natività in una stalla piuttosto che in una grotta. Cordiali saluti
Grazie di avermi scritto, signor Francesco, e grazie di ciò che dice del suo lavoro. In quanto alla domanda, credo che collocare la Nascita del Bambino Gesù nella grotta o in una capanna, sostanzialmente, sia indifferente rispetto all’emozione che l’Evento provoca. La scelta dipende più che altro dalla tradizione del paese cui si appartiene. Io, per parte mia, preferisco la grotta, perché vi trovo un particolare simbolismo di cui ho accennato nel mio libro “Il sogno di Benino” e su cui tornerò in un prossimo articolo. Spero che avrà la pazienza di leggermi ancora.
Dal lavoro della terra all’inseparabile quadrupede, dal volto espressivo del contadino al presepe col Giusto, la promessa sposa e suo Figlio fino ai falsi profeti e ancora il castello di Erode: sono troppo curioso di seguirti in questo bizzarro e affascinante itinerario.
Grazie!
Grazie, Mariano. In effetti, è un itinerario che porterà a dire cose non sempre gradevoli.