I mestieri di Napoli, come sono rappresentati nel libro del De Bourcard, mostrano che il “dolce far niente”, espressione coniata in Francia, è stata applicata alla città partenopea del tutto immotivatamente, come del resto ci assicura anche la tradizione del presepe, con la variopinta molteplicità dei suoi personaggi, impegnati nelle più diverse attività.
E torno a parlare di un argomento che mi sta a cuore, i mestieri di Napoli.
Ho sempre amato gli scrittori di “cose patrie“, cioè quegli scrittori che, senza darsi troppe arie di storici, raccolsero a favore dei contemporanei e dei posteri le memorie, le usanze, gli aneddoti in cui si esprimeva la vita dei loro concittadini. Accanto agli scrittori di Storia (con la S maiuscola) si collocano questi scrittori grazie ai quali ci sono state conservate le atmosfere dei tempi passati. Attraverso le loro pagine, rivive l’anima di un popolo.
Nella mia gioventù, trascorrevo molte ore della giornata nella Biblioteca Nazionale di Napoli, a preparare gli esami universitari e la tesi di laurea, che verteva sulla comparazione del latino con le altre lingue che si parlavano nell’Italia antica. Quando ne avevo abbastanza di Etruschi, di Iapigi, di Oschi e di Umbri (per non parlare dei Falisci), me ne andavo nella Sezione Napoletana a ricreare lo spirito sulle pagine di Benedetto De Falco, di Giulio Cesare Capaccio, o dell’ottimo don Bartolommeo Capasso, che, morendo alla fine del secolo XIX, meritò l’epicedio di Benedetto Croce sulla rivista “Napoli Nobilissima”.
Un’opera ottocentesca soprattutto mi deliziava con i suoi testi e le sue illustrazioni: i due volumi del De Bourcard su Usi e costumi di Napoli e contorni.
Di quest’opera ti ho già dato qualche saggio, per esempio qui e qui, ma ora voglio presentartela in maniera diretta, perché ad essa sono molto legato, come napoletano e come raccoglitore di memorie napoletane.
Francesco De Bourcard ne fu l’editore e, come scrive lui stesso nella presentazione “A chi legge”, per evitare di dare alle stampe un’opera che risultasse noiosa se scritta da uno solo, volle servirsi della collaborazione di diversi scrittori, come si dice, le migliori penne dell’epoca, riservandosi l’onore di premettere all’opera un interessante “Cenno su Napoli”, preciso nella sua concisione..
Cossovich, Bidera, Mastriani, Dalbono sono tutti nomi che al frequentatore di memorie napoletane dicono ancora oggi molto.
Questi scrittori si alternano nella descrizione di mestieri (la lavandaia, il cantastorie, lo scrivano), di usanze (il gioco della morra, le feste, gli spettacoli popolari), gli ameni dintorni di Napoli (Castellammare, Sorrento, Montevergine). Spira in queste pagine l’amore per la propria città e la propria gente, anche se non se ne nascondono né se ne giustificano i vizi e i difetti. Naturalmente, i mestieri di Napoli sono l’argomento principale di quest’opera.
Ogni descrizione è accompagnata da un’illustrazione, viva e particolareggiata, dovuta alla mano di un grande artista, qual era Filippo Palizzi, il quale, non potendo provvedere da solo alla realizzazione di tutte le tavole necessarie, affiancò a sé altri validi pittori. La fatica sarebbe stata, infatti, immane: l’illustrazione, immaginata e disegnata dal pittore, era poi stampata a cura dell’incisore e toccava nuovamente al pittore aggiungere i colori ad ogni singola tavola. Palizzi, con tutta la sua bravura, non avrebbe potuto da solo provvedere a disegnare e poi dipingere tutte le tavole occorrenti alle cento copie previste per la tiratura.
I nomi degli scrittori e degli incisori che collaborarono all’opera sono scritti nell’elegante cartiglio ai lati del frontespizio, splendidamente ornato a ricordare la ricchezza e la bellezza della terra in cui la città di Napoli è incastonata.
Ci volle molto tempo perché l’opera fosse completata: il primo volume fu pubblicato nel 1857, per il secondo si dovette attendere il 1866, quando da alcuni anni Napoli e il Sud erano ormai parte dell’Italia. Il clima mutato si avverte in alcune pagine nelle quali si accusa apertamente il regime dei Borbone di avere, abbandonando il popolo a se stesso, contribuito al rafforzarsi del fenomeno camorristico.
Amavo, all’epoca, ed amo tutt’ora, quest’opera nelle cui pagine mi piace sprofondarmi, per due ragioni, che sono strettamente collegate l’una all’altra: da una parte, mi attirava la somiglianza dei personaggi raffigurati con le statuine del presepe, i cosiddetti “pastori”, che fanno rivivere i mestieri e le arti del popolo napoletano intorno alla grotta del Bambino Gesù; dall’altra, la varietà e talvolta la fantasia, l’originalità dei mestieri stessi mi confermava nell’idea che il popolo di Napoli fosse tutt’altro che un popolo di fannulloni e di scansafatiche, che fosse invece operoso al punto che, quando il lavoro mancava, esso sapeva inventarselo, fosse anche il più umile, purché fosse onesto.
Da quando in Francia si inventò l’espressione “dolce far niente” non si trovò di meglio che applicarlo a Napoli e ai Napoletani. Su questo mi sono già espresso e, se vuoi approfondire, puoi leggere qui la mia opinione in merito.
Anche la famosa “arte di arrangiarsi” che viene attribuita al popolo napoletano è stata malamente fraintesa, mentre vuole indicare l’operoso darsi da fare per inventarsi un lavoro, se non se ne ha uno. Per esempio, un mestiere, uno dei più umili e che oggi, fortunatamente non esiste più, è quello che nel De Bourcard è definito “il trova-sigari“, titolo fin troppo nobile rispetto a ciò che esso indicava in realtà. Io stesso, da bambino, ho veduto all’opera qualche povero diavolo, a volte un vero relitto umano, che esercitava questo mestiere.
Con un sacco sulla spalla e un bastone alla cui estremità c’era una sottile punta acuminata, girovagava ore e ore per le vie di Napoli, a raccattare i mozziconi di sigarette buttati per strada dai fumatori. In dialetto, il termine che indicava questa umilissima attività era ‘o muzzunaro (da muzzone, “mozzicone”). Quando si voleva distogliere qualcuno dall’intraprendere la cattiva strada, gli si diceva “pure si vuo’ i’ a fa’ ‘o muzzunaro”, “anche se vuoi andare a fare il raccoglitore di mozzoni (è meglio che darsi alla delinquenza)”.
Del continuo raffronto tra la rappresentazione presepiale con le pagine e le figure di libri come quello del De Bourcard, in un continuo riscontro con la realtà quale si dispiegava sotto i miei occhi, per le strade, le piazze, i vicoli, si è nutrito il mio amore per la città e il popolo di Napoli.
Di quest’opera mi servirò ancora per mostrarti la varietà e la fantasia che regna nel lavoro del popolo napoletano, con l’aiuto delle statuine del presepe.
Ma tu, sei uno di quelli che crede davvero che Napoli sia il paese del “dolce far niente”? Se sì, e se continuerai a leggermi, ti dimostrerò quanto questo giudizio sia intriso di superficialità, di pregiudizio e, diciamolo francamente, di un po’ di cattiveria e malevolenza.