Innovazione e tradizione sono i due poli entro i quali si deve svolgere l’attività di chi “fa il presepe”, se questi vuole esprimere pienamente se stesso, ma anche essere al servizio della collettività.
Innovazione e tradizione nell’arte del presepe costituiscono il tema di fondo in alcuni articoli, che ho scritto su personaggi poco conosciuti che apparivano in elaborazioni di artigiani contemporanei e dei quali si poteva pensare, e legittimamente, che fossero del tutto estranei alla tradizione presepiale. Era il caso del brigante abruzzese Santuccio e della monaca Mafalda.
In seguito a questi articoli, l’amico Guido Di Lorenzo mi ha posto un problema che non potevo mettere da parte come inesistente: fino a che punto sia lecito ampliare la serie dei personaggi senza che il presepe perda la sua specificità, quei caratteri, cioè, per cui lo si riconosce appunto come presepe.
In altre parole, Guido mi riproponeva il problema del rapporto tra innovazione e tradizione per quanto riguarda l’arte presepiale.
Questo non è un problema di poco rilievo e, del resto, non è la prima volta che esso mi si presenta, nella mia lunga carriera di “facitore” e di “visitatore” di presepi. Ricordo di essere spesso rimasto perplesso, dopo avere visitato splendide rappresentazioni plastiche, che mostravano spiccata fantasia e ottime capacità manuali in chi le aveva ideate e costruite: eppure me ne ero andato con la non gradevole sensazione di avere visitato non un presepe, ma qualcosa d’altro, per quanto interessante potesse essere.
Per esempio, una volta un amico mi condusse a visitare il “presepe” costruito da uno zio. Era l’epoca della escalation dell’impegno americano in Vietnam, che dilaniava le coscienze e suscitava per la guerra una ripugnanza quale forse non era mai stata avvertita prima, nella storia del mondo. Ebbene, lo zio del mio amico aveva riprodotto un campo di battaglia, veridico in tutti i suoi aspetti, con i campi di filo spinato, i mezzi corazzati e i soldati che si scagliavano contro di essi. Era riuscito anche a far sorvolare il cruento scenario da aerei ed elicotteri. In un cantuccio, poi, in una capanna di tipo vietnamita era collocata la Natività. Il concetto non era affatto banale e la realizzazione accurata: ma non potevo fare a meno di chiedermi se quello poteva considerarsi un presepe: infatti a me sembrava più che altro un plastico come io stesso ne avevo costruiti per le mie collezioni di soldatini, per esempio uno anche per la battaglia di Waterloo.
Altre volte avevo aiutato qualche compagno a realizzare il plastico per il trenino elettrico: avevamo adoperato gli stessi materiali con cui facevamo il presepe, avevamo messo in opera le stesse tecniche, ma sapevamo che non stavamo facendo il presepe.
Per questo, ti ho più volte avvertito che “fare il presepe” non è modellismo.
Innovazione e tradizione, tuttavia, non sono in contrasto: innovare è importante, affinché chi “fa il presepe” possa esprimere pienamente se stesso, dando forma alle proprie idee, nello stesso tempo offrendo ai visitatori qualche nuovo spunto di riflessione: è quanto feci io stesso, un Natale di tanti anni fa, costruendo il presepe in una chiesa, come ho raccontato qui.
Attenersi però alla tradizione è altrettanto importante, per tramandare quanto ci è stato affidato: il senso della parola “tradizione” è proprio questo, un “consegnare” ad altri ciò che noi stessi abbiamo ricevuto.
Inoltre, se ci discostiamo troppo dalla tradizione, gli altri non riconosceranno il senso del nostro “fare”. Magari troveranno bella la nostra opera, ma non riconosceranno in essa la presenza di certi significati per loro essenziali.
Per esempio, è ciò che è capitato a Guido e a me, nel visitare la mostra presepiale, cui ho accennato nell’articolo sulle luci di Salerno. Tra gli altri, ve n’era uno molto bello, costruito e rifinito con molta cura. In uno spazio raccolto, vi erano gli elementi essenziali di un presepe, la grotta con degli scalini, un piccolo fiume o laghetto (ad assicurare la presenza, importante, dell’elemento acqua), i pastori offerenti e i Re Magi.
Ma, prima stranezza, nella mangiatoia mancava il Bambino; né si vedeva la Madonna accanto a San Giuseppe: è vero che il Santo recava nella mano destra il bastone fiorito di cui parla un Vangelo apocrifo, ma l’assenza della sua Immacolata Sposa era sconcertante.
Solo dopo un’ansiosa ricerca, la vedemmo: in piedi in fondo ai gradini, che levava il viso e le braccia al cielo, chiaramente rivolta verso gli Angeli dell’Annuncio, nell’atteggiamento consueto del pastore della meraviglia.
Anche se apprezzavamo la realizzazione tecnica, non comprendevamo il senso di quelle particolarità: Maria aveva già ricevuto l’annuncio da parte dell’Arcangelo Gabriele, per cui il gesto appariva del tutto immotivato. Né si capiva che ci facessero lì i Magi, visto che Colui che avevano cercato non c’era. Anche i pastori, invece di recarsi alla grotta per adorare il Salvatore, sembravano allontanarsene. Insomma, una buona tecnica artigianale, al servizio di una idea incomprensibile.
Il rischio che si corre a inseguire l’originalità a tutti i costi è appunto quello della incomunicabilità tra l’artigiano del presepe e il visitatore.
Ho poi saputo dello scandalo suscitato da una brava artista che volle rappresentare la Madonna partoriente. Non ho visto l’opera, ne ho soltanto avuto notizia, ma non sono concorde sullo scandalo: non solo perché in arte nulla è scandaloso, ma soprattutto perché penso che essa piuttosto fosse inopportuna sotto l’aspetto della rappresentazione presepiale.
Se facciamo il presepe, è proprio per celebrare una Nascita eccezionale, la quale dà una prospettiva nuova alle nascite particolari che avvengono nel mondo. Allora, quella Nascita non deve essere ricondotta a ciò che sappiamo del parto, naturalisticamente inteso, pena la riduzione del Mistero alla quotidianità: altrimenti si toglie significato al “fare il presepe”, in cui la quotidianità è invece innalzata al Mistero e assunta in esso.
Penso quindi che innovazione e tradizione devono essere i poli entro i quali chi fa il presepe deve mantenersi in equilibrio, cosa che non è difficile se si osserva il senso della misura e se si tiene conto non solo delle proprie esigenze di espressione, ma anche le esigenze di ricezione da parte di coloro cui l’opera è rivolta.
In quanto ai due personaggi menzionati sopra, la monaca Mafalda e il brigante Santuccio, essi sono “autorizzati” a prendere parte alla rappresentazione presepiale dalla tradizione stessa: le monaca Mafalda è giustificata dal piccolo presepe in terracotta di Grottaglie, segnalatoci dalla signora Maria, per lo meno se è giusta l’interpretazione che ne abbiamo data Antonino ed io.
In quanto a Santuccio, brigante abruzzese, lo abbiamo ritrovato nel piccolo ma prezioso catalogo che Giuliana Boccadamo aggiunse al libretto, denso di spunti molto interessanti, del teologo don Bruno Forte, oggi arcivescovo di Chieti.
“Il racconto del presepe” è del 1999 e apparve per i tipi dell’editore D’Auria, che ha la sua sede in piazza del Gesù, a Napoli.
Riservandomi di parlare del libro in un’altra occasione, qui mi limito a presentarti l’inventario redatto da Giuliana Boccadamo, docente presso il Dipartimento di Studi umanistici della Università Federico II di Napoli.
Ancora una volta, è stato Antonino ad attirare la mia attenzione su questo catalogo, essenziale, ma, come ti dicevo, prezioso.
Leggendo l’avvertenza che la studiosa ha premesso al suo inventario, appare chiaro che esso è stato redatto a partire da documenti notarili, credo soprattutto testamenti: i proprietari di “pastori” vestiti del Settecento e dell’Ottocento erano consapevoli del patrimonio non solo artistico, ma anche venale, in loro possesso e negli atti testamentari avevano cura di legare i loro preziosi “pastori”, designandoli con nomi generici o specifici, a eredi che ne fossero degni, talvolta alla chiesa che frequentavano. Quest’ultimo è un caso su cui dovrò ben presto ritornare.
Ebbene, Santuccio, brigante abruzzese, è presente nell’inventario della Boccadamo, nell’elenco dei personaggi (l’inventario analizza anche gli animali, le scene, gli alimenti). Ciò vuol dire che sul presepe questo personaggio figurava già nell’epoca d’oro dei pastori vestiti e non è una invenzione dei moderni artigiani. Probabilmente esso è addirittura precedente al “cacciatore” che, a quanto sembra, compare sul presepe solo a partire dall’Ottocento.
Quale possa essere, poi, il significato profondo della presenza di questi inquietanti personaggi sul presepe, è un tema che non potrò evitare di affrontare prima o poi.
Ma tu, nel fare il presepe, ti sei mai posto il problema dell’equilibrio tra innovazione e tradizione? E se sì, come l’hai risolto? Sarebbe importante avere le tue osservazioni, per confrontarle con le mie.