Nel disfare il presepe e nel progettare il prossimo, vien fatto di pensare al trascorrere della vita, che non va posta a rischio, se non per cause che siano pari alla sua bellezza e preziosità. Perciò intitolo questo articolo: il presepe e la bellezza della vita.
Arriva ogni anno il momento di disfare il presepe e di riporre nella loro custodia le statuine, i “pastori”, come li chiamiamo a Napoli, con un termine tecnico che è una sineddoche (la parte per il tutto). Il momento è sempre avvolto da un velo di tristezza, a mala pena dissipato dalla consapevolezza che da qui a pochi mesi si metterà in cantiere il nuovo presepe. Secondo una consolidata tradizione il presepe si inizia nel giorno di San Giovanni Battista, come ho spiegato nell’articolo San Giovanni Battista: è tempo di iniziare a costruire il presepe. Per l’operazione di ridestare i pastori dal sonno, il cosiddetto “scartoccio”, dovremo attendere il mese di ottobre o anche di novembre.
Prima di deporlo nella sua scatolina d’argento (una vecchia bomboniera, ricordo di non so quale gioioso evento), trattengo nelle mani il Bambinello, che mi accompagna ormai da più di sessant’anni, fin dal primo presepe, costruito interamente da me, a, dodici anni, con l’aiuto dell’amico Ernesto.
Non è propriamente un esame di coscienza, quello che compio contemplando l’immagine del Bimbo divino, in cui si rispecchia il mio Sé più vero: è piuttosto un sentimento di profonda gratitudine per l’anno trascorso che ho vissuto come un dono prezioso, che si aggiunge alla mia vita: già lunga, posso ben dirlo, se confrontata con quella di tanti amici che mi hanno preceduto nel varcare la soglia. E ripenso a mio fratello, che lasciò questa terra a soli vent’anni, seguendo mio padre che, a quarantasei, “andò a vedere come era davvero il volto della Madonna”, che tante volte aveva plasmato, perché agli uomini risplendesse quaggiù almeno un debole raggio della Divina Gloria.
Preziosità della vita, anche di un solo giorno di cui si può godere su questa terra: non fosse altro che per terminare il romanzo di cui fu iniziata la lettura e di cui si vorrebbe conoscere la fine. Se avesse minimamente riflettuto su questo, quella ragazza, la cui infelice frase, con la quale tranquillamente barattava ciò che restava di vita agli anziani nonni con il diritto all’aperitivo al bar (“… che morissero, cioè”), ha fatto il giro di tutti i mezzi di comunicazione, quella frase non l’avrebbe pronunciata.
Ho commentato quella frase nell’articolo Il presepe in tempo di covid.
L’ho ritenuta non più che una sbruffonata giovanile. Eppure, senza una una componente di superficialità e di colpevole leggerezza (colpevole perché oggi i giovani hanno più di quanto abbiamo avuto noi, in termini di informazione, ai tempi della nostra gioventù), quella frase non sarebbe stata neppure concepibile.
Ma ciò che fa rabbrividire è la mancanza di considerazione e di rispetto che i giovani hanno per la propria stessa vita, pronti come sono a metterla a rischio per le cause più superficiali e futili, la partita di calcio, la festa di diploma o di laurea, l’esibizione del cantante preferito, in nome di una socialità, il cui bisogno, se fosse reale, avrebbe modo di esplicarsi con molti mezzi senza mettere a rischio la vita.
Ognuno di loro dovrebbe riflettere a ciò che la sua vita rappresenta non solo per genitori, parenti e amici, ma per l’umanità intera. Dovrebbe dire a se stesso:
Potresti essere tu lo scienziato o la scienziata che trova la cura definitiva che sconfigge il cancro.
Potresti essere tu colui che dona al mondo un nuovo poema. immortale al pari della Divina Commedia.
O a erigere “nuovo Olimpo ai Celesti” (Foscolo), che gareggi con la Cappella Sistina.
O anche, più modestamente, potresti essere tu il poliziotto o la poliziotta che salva dallo stupro la donna indifesa, o il vigile del fuoco che sottrae alle macerie o alle fiamme preziose vite umane, o l’onesto commerciante che amplifica la circolazione del denaro per l’accrescimento della ricchezza dei popoli.
Mettere a rischio la vita significa rinunciare alle possibilità future, proprio come, recidendo un giovane albero, si rinuncia a goderne i frutti che sarebbero venuti. E c’è un’altra cosa che ha tratto magnifici accenti a uno dei miei scrittori prediletti, Giuseppe Marotta: una madre il figlio non l’ha trovato sotto un cavolo, ma l’ha pazientemente e amorosamente portato in grembo per nove mesi, come sapeva anche il buon Virgilio, il poeta più sensibile e colto dell’antichità:
matri longa decem tulerunt fastidia menses …
e con altrettanta pazienza e amore lo ha nutrito ed allevato.
Certo, queste considerazioni non rappresentano un invito alla viltà e all’egoismo. La vita va anche esposta al rischio per una causa che sia pari alla bellezza e alla preziosità della vita stessa. Nel momento in cui scrivo i giovani ucraini, uomini e donne, imbracciano il fucile per contrastare il passo al barbaro invasore del loro suolo patrio, con lo stesso spirito con cui a Curtatone e a Montanara gli studenti toscani contrastarono il passo al potente esercito austriaco, suscitando l’ammirazione dello stesso generale nemico Radetzky (c’è ancora qualcuno in Italia che ricordi il patriottico canto “Addio, mia bella, addio…“?).
Del resto, proprio in questi due ultimi anni, abbiamo visto medici e infermieri prodigarsi per la vita degli ammalati, vecchi o giovani che fossero, e rimetterci molto spesso la propria nello spirito di abnegazione che il loro lavoro comporta. Ecco una degna maniera di vivere e rischiare la vita.
Quella vita di cui il presepe è un inno, con l’esaltazione del lavoro, la raccomandazione per la misericordia, la riprovazione della violenza e del sopruso: l’ho scritto più volte.
Chi non ha rispetto per la vita propria e altrui non ha il diritto, nonché di farlo, neanche di accostarsi al presepe.
Sì è vero, caro Italo, tanta è la tristezza nel disfare il presepe, ma tu come ben sai in un angolo di casa ho allestito una sorta di “cantiere permanente” e quindi questo stato d’animo per il momento non mi sfiora.
È inimmaginabile invece il dolore straziante per la perdita prima di tuo padre (che capolavoro l’Immacolata!) e poi di tuo fratello così giovane, ma conoscendoti sicuramente risplende sui loro volti la Sua gloria immensa.
Un grande abbraccio