Un racconto di Giuseppe Marotta immagina un colloquio tra le Persone della SS. Trinità, il giorno precedente la Vigilia di Natale: il Figlio è preso dalla nostalgia per gli uomini e vorrebbe, nella Notte Santa, incarnarsi di nuovo, per tornare fisicamente in mezzo a loro. Ma il Padre gli fa vedere che il suo desiderio è irrealizzabile.
Fu Emilio Cecchi a dire per primo che il napoletano Giuseppe Marotta, milanese per lavoro, era un grande scrittore. Non è un fatto casuale, perché Cecchi, proprio come Marotta, non faceva parte di conventicole culturali o accademiche e poteva quindi esprimere il proprio pensiero, svincolato da ogni tipo di interesse e di pregiudizi.
Perché erano certo pregiudizi e malcelata malevolenza quelli che spinsero la critica ufficiale a respingere Giuseppe Marotta nell’angolo della letteratura provinciale, di genere, bozzettistica, in cui “poteva impunemente risorgere il vecchio mito napoletano”, come scriveva uno dei maggiori critici letterari dell’epoca, il quale (a leggerlo tra le righe si scopre chiaramente) alle pagine di Marotta aveva dato non più che un’occhiata frettolosa, per di più attraverso le lenti di pregiudizi di vecchio stampo, che si spacciavano per modernità.
A una giusta valutazione di Giuseppe Marotta, infatti, facevano ostacolo sia il suo essere napoletano, sia l’avere lavorato nella cosiddetta letteratura minore, la critica cinematografica, per esempio, o dei racconti umoristici.
Eppure, sfido uno qualsiasi dei suoi malevoli critici a scrivere una sola pagina che possa rivaleggiare per intensità emotiva e capacità d’invenzione linguistica con una pagina di Giuseppe Marotta.
A causa di certa critica, se oggi ti rechi in libreria a cercare le opere di Marotta, sta pur sicuro che non le troverai, perché non sono mai state ristampate, ad eccezione di L’oro di Napoli e di Gli alunni del sole: ma anche questi due potrai trovarli solo con difficoltà.
Eppure, Le madri, per esempio, di cui ti ho già parlato qui, è un capolavoro che, sotto un’apparente semplicità di linguaggio, nasconde profondità di pensiero e capacità di commozione.
La “madre” è uno dei simboli più forti dell’umanità e Giuseppe Marotta lo rappresenta nelle sue innumerevoli sfaccetature. A partire dalla trasformazione che la donna subisce nel diventare madre. Un uomo che diventa padre non è soggetto allo stesso mutamento della donna che si fa madre. Almeno, questo pensa il nostro scrittore. Credo che gli si possa dare ragione. Come credo che gli si possa dare ragione quando insinua che nessun uomo accetterebbe di avere una madre diversa da quella che ha avuta.
Nel libro Le Madri, due racconti sono intitolati alla Vergine Maria, la Madre di Dio. Del primo ti ho già parlato qui, del secondo, che è anche quello che conclude il libro, ti parlo brevemente ora.
Siamo in Paradiso, il 23 dicembre, antivigilia di Natale.
Padre e Figlio, seduti nell’altissimo giardino (c’era un bizzarro sofà d’erba speciale, a batuffoli, morbida come l’ovatta) ragionavano con eccezionale fervore. Non importa descrivere fino a che punto luce, aria, piante fossero innamorate di loro.
Museo del Prado
http://pintura.aut.org
Il Figlio confessa al Padre un’intima sofferenza, che forse si potrebbe definire nostalgia del mondo umano, con tutte le sue debolezze, meschinità e dolori, ma anche con i suoi piccoli atti di bontà e le piccole gioie che talvolta rischiarano la vita quotidiana. La bellezza di quel mondo di cui Dio stesso, quando lo ebbe creato, dichiarò la fondamentale bontà. “E Dio vide che era buono”… come sta scritto nel libro della Genesi, proprio all’inizio.
Dunque, il Figlio rievoca la sua dimora terrena.
– La terra. Gli uomini. Sì, è vero. L’alito della grotta e quello del bue e dell’asino … rammento. Si unirono, ebbi un fiato solo tra i capelli, di roccia e di animali: subito, appena respirai laggiù, conobbi l’odore fondamentale, eterno, del mondo che ti aveva rallegrato e deluso: immediatamente conobbi, e mi piacque per trentatré anni, l’odore della tua fatica. Ero anch’io, del resto, zolla e vene: perciò ebbi addosso fin sulla croce l’odore della tua remota fatica: e non sono mai riuscito a dimenticarlo qui. In dicembre mi riassale particolarmente acuto; non ho memoria d’altro, si può dire.
Insomma, il Figlio vorrebbe incarnarsi di nuovo, nascere nuovamente nella mangiatoia, non solo simbolicamente, quando gli uomini, nella Notte Sacrata, pongono commossi nella culletta il Bambinello che Lo raffigura, nel presepe che in Sua memoria hanno preparato.
E il Figlio continua la perorazione presso il Padre:
– Un lembo della mia tunica s’abbassa, raggiunge il firmamento degli uomini… e io li rivedo, Padre, li rintraccio uno per uno. Come si affaccendano e si preparano! Domani è Natale. Rievocheranno inteneriti la mia nascita… a mezzanotte la mia cuna splenderà dovunque: tutti saranno Magi in cammino verso di me: tutti, con lacrime e sorrisi, mi chiameranno per nome.
Invano il Padre gli ricorda l’ingratitudine degli uomini, il loro tradimento nei riguardi del messaggio di pace e di amicizia universale che Il Figlio aveva loro portato, insieme con il perdono di Dio: un messaggio con il quale aveva dato “umiltà e grandezza, un significato alla vita e alla morte” (bellissimo! Marotta coglie qui il senso profondo del Cristianesimo). Il Figlio è deciso a tornare fra gli uomini, che hanno ancora bisogno di Lui e che Lo attendono e che stavolta “si convertiranno definitivamente alla [sua] dolce tristezza”…
Ma non posso trascrivere per intero questo racconto che va letto nella sua completezza, per essere goduto pienamente. E devi anche dimenticare, leggendo questa pagina di Giuseppe Marotta, che, dal punto di vista teologico, il Figlio è la Sapienza di Dio e che quindi ciò che sa il Padre sa anche il Figlio… devi vederlo, il Figlio, nell’umanità che ha voluto assumere e che lo rende nostalgico del mondo degli uomini e desideroso della loro compagnia.
Ma il Padre non può inviarLo nuovamente: non perché Gli neghi il suo consenso, ma perché il desiderio del Figlio è oggettivamente irrealizzabile. Il Figlio stesso lo comprende, infine: ecco come si conclude il racconto:
Ma, in quel medesimo istante, percepirono entrambi un tenue fruscio. Chi varcava il cancello e si dirigeva lentamente verso la panchina d’erbe? Il Figlio trasalì distinguendo la cara Immagine. Si alzò e le tese le braccia. Tutt’a un tratto il greve lembo della sua tunica s’era come sciolto e vuotato: ridivenne un semplice ricamo di bagliori, un ordinato impalpabile miscuglio di tinte, aria filata.
– Non avevi riflettuto su ciò, – disse il Padre. – Il tuo secondo viaggio, la tua seconda umanità è irrealizzabile per questo. Come, come potresti avere un’altra mamma?
Non credo, a questo punto, di dovere commentare la conclusione di questo racconto. Basta che ti poni una semplice domanda: accetteresti, tu, di avere una madre diversa da quella che hai avuta?
Ha il viso di mia madre
Un poemetto dell’India, intitolato Nagananda (“Il giubilo dei Serpenti”) ha una bellissima strofa che si accorda con quello che abbiamo detto: gli Induisti, come i Buddisti, credono nella reincarnazione. Il poeta si augura che, in qualunque forma gli tocchi rinascere, gli tocchi nuovamente la mamma che ha avuto in questa vita (la traduzione è di Francesco Cimmino):
Mamma, qualunque sia
quella in cui nascerem vita novella,
tu, cara al figlio, in quella
possa ancor esser tu la mamma mia.
Come si suol dire, caro Italo, hai infilato un’altra perla: purtroppo non ho saputo resistere e ho comprato su eBay una copia usata del libro “Le Madri” di Marotta, perché i brani che hai riportato sono di una bellezza assoluta.
Ancora un grazie di cuore
Mariano
Per fortuna non hai saputo resistere, caro Mariano. Scrivo proprio per questo: perché non si resista al desiderio di conoscere. E vedrai: quando lo avrai letto, mi confesserai che non conoscere i libri di Giuseppe Marotta è un vero peccato. Un peccato per gli Italiani, a causa di certi critici che sicuramente sconteranno con un lungo Purgatorio il “loro” peccato… nei confronti degli Italiani, non tanto dell’Autore. Ma spetta a Dio giudicare per l’aldilà. Nell’aldiquà io posso dire serenamente che hanno tradito il loro mestiere. Se qualcuno di loro è ancora vivo, si penta, prima che sia tardi.
Professo’ pure Enzo Striano e’ nu bell scrittore e tu per Striano pure ti farai un lungo purgatorio, leggendoti ogni iuorno le sue opere, sfortuna tua che molto scisse ma poco pubblicò, perché gli editori sono molto assaie uomini di poca fede.
Ma comme fa’ ma comme fa’
Antò, si Spriano te piace, t”o puo’ pure spusà. A me, comme te l’aggio a ddicere, non dice il classico fico secco proprio per niente. Perciò, sicuramente, lunghi secoli di priatorio me l’aggio a fa’ pecché i’ so’ nu povero piccature; ma, pe grazzia d’a Madonna, senza i libri di Spriano. Ecco tutto. Ognuno legga ciò che gli piace. Pirciò, Antò, va te cocca e nun ce scuccià!!!