domenica , 1 Dicembre 2024
napoli nobilissima

Giovanni Artieri e la Napoli Nobilissima

Giovanni Artieri, in un bel libro del 1955, “Napoli Nobilissima”, parla di luoghi e persone della sua amata Napoli e la difende dalla maldicenza che, nelle altre città d’Italia, si esercita quasi come uno sport nazionale.

Giovanni Artieri, giornalista, scrittore e uomo politico napoletano,  ad uno dei numerosi libri che dedicò alla sua città diede il titolo di Napoli Nobilissima, non solo come omaggio alla Rivista d’arte e di topografia napoletana, fondata da Benedetto Croce e da altri studiosi nel 1892, ma anche in sintonia con una tradizione che risale a Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero nella prima metà del secolo XVI.

giovanni altieri - napoli nobilissima
Giovanni Artieri, Napoli Nobilissima, Longanesi, Milano 1955.
Sovraccoperta

L’omaggio alla prestigiosa rivista, pubblicata dal 1892 al 1906 e poi nuovamente dal 1920 al 1922, è anche un riconoscimento dell’importanza che essa ha rivestito nella cultura napoletana: non c’è studioso o scrittore di cose napoletane, infatti, che non vi abbia attinto o non ne abbia tratto ispirazione.

Un ulteriore omaggio a Croce Giovanni Artieri volle tributare con il sottotitolo: Uomini, storie, cose di una città non può non ricordare il libro del grande filosofo Uomini e cose della vecchia Italia.

Leggere questo libro è piacevole per chi è napoletano e molto istruttivo per chi non lo è: vi si parla di luoghi cari alla memoria dei Napoletani, come il celebre caffé Gambrinus e il teatro San Ferdinando, per esempio, e di personaggi che hanno fatto la storia culturale di Napoli e che l’autore ha conosciuti personalmente, riportandone impressioni e ricordi che rendono vive le sue pagine.

Giovanni Artieri ama la sua Napoli e la difende dalla maldicenza che, quasi uno sport nazionale,  nelle altre città d’Italia si esercita ai suoi danni. Ho potuto personalmente, e con amarezza, constatarlo tutte le volte che sono stato in giro per lavoro o per conoscenza: mi resta ancora impresso il ricordo di una sera di tanti anni fa, in una trattoria di una città di cui non ti dico il nome, perché, per altri versi, quella città fu nei miei riguardi molto ospitale e ricordo con viva simpatia i suoi monumenti, le sue strade, i suoi abitanti.

Dunque, ero solo, seduto al mio tavolo e leggevo un libro, in attesa che mi si portasse la cena. Al tavolo accanto, commensali di ambo i sessi stavano appunto esercitando lo sport nazionale della maldicenza nei confronti di Napoli. Parlavano a voce alta, perciò non potevo fare a meno di udire.

Li lasciai parlare per un bel po’. Infine mi rivolsi loro con garbo: – Scusatemi – dissi – ma non ho potuto non ascoltare …

Si fece un immediato silenzio: l’imbarazzo generale era visibile. Qualcuna delle signore arrossì, poi una di loro chiese timidamente: – Forse Lei è napoletano? Ci scusi, non volevamo …

Ma io, con un sorriso sornione, li incoraggiai: – No, no, continuate pure. Anzi, volevo ringraziarvi che state parlando della mia città; perché posso assicurarvi che, in questo momento, in nessuna pizzeria di Napoli si sta parlando di …

Ricordo la faccia del padrone della trattoria, ancora più imbarazzato degli altri: si fermò con a mezz’aria il piatto che mi stava portando proprio in quel momento. Poiché non sapeva che ero di Napoli, anche lui qualche volta, precedentemente, si era lasciato andare a qualche invettiva contro Napoli e i Napoletani.

La mia fu una battuta cattiva, lo ammetto, ma non riesco a pentirmene. Avevo ben presente alla memoria la pagina di Giovanni Artieri in Napoli Nobilissima, nella quale l’autore attribuisce la maldicenza nei confronti di Napoli a un complesso di inferiorità.

Chi parla di Napoli come del paese nel quale “tutto si compra e tutto si vende” mette fuori un rivelatore spirito di vendetta. Dal vecchio Fucini in poi la polemica contro Napoli fu condotta da scrittori che, anche per un momento, per un baleno, furono o punti o feriti dallo sguardo, dal mezzo sorriso, dal sarcasmo dello scugnizzo, del cocchiere, del mendicante col quale parlavano. Le pagine e i libri in cui fu consegnata la leggenda del “dolce far niente”, la fama della “mendicità”, l’epopea della stracciata prostituzione morale del popolo escono da un complesso di inferiorità.

 

dolce far niente cartolina
Il cosiddetto “dolce far niente” in una cartolina postale d’epoca

Certo, spesso i Napoletani si sono divertiti ad incrementare essi stessi  la fama del popolo scanzonato, dedito al “dolce far niente”, quasi per accondiscendere benevolmente a quello che gli altri volevano pensare di loro: ne è testimonianza anche la cartolina che ti ho mostrata. Ma si tratta di una autoironia, di cui pochi altri popoli sono capaci. Al contrario, come puoi constatare tu stesso se passeggi per la città, i Napoletani sono attivi ed industriosi, pronti ad inventarsi un mestiere, quando non hanno lavoro. Sono anche pronti a godersi al momento opportuno quel raggio di sole, a spera ‘e sole, di cui il buon Dio è prodigo ai giusti e agli ingiusti.

E del resto, non si può considerare la filosofia del “dolce far niente” caratteristica di un popolo che anche sul presepe descrive se stesso affaccendato in mille attività. Per condividere ciò che dico ti basta dare uno sguardo al “presepe Cucciniello” esposto al Museo civico si San Martino.

Quando poi ti ho parlato del presepe popolare, ti ho fatto notare che i personaggi principali rappresentano mestieri umili, ma dalla forte valenza simbolica, psicologica e antropologica.

Sia il presepe “colto”, sia il presepe “popolare”, ti presentano persone dedite al lavoro e alla operosità. Allora, altro che “dolce far niente”.

Natyuralmente, il Napoletano non è disposto a “dannarsi l’anima” per accumulare ciò che prima o poi dovrà abbandonare: per chi si preoccupa troppo delle cose di questa terra, il Napoletano ha pronta una domanda tra l’affettuoso e l’ironico:

“Guaglio’, quant’anne vuo’ campa’? ” cioè: “Ragazzo mio, quanto pensi di potere vivere? “

Ma confondere questa saggezza con il famigerato “dolce far niente” altro non è che malafede. Ora termino, ma non ho chiuso affatto l’argomento, che continuerò a trattare, con il tuo aiuto, se vorrai farmi conoscere il tuo parere.

Ma tu, pensi davvero che a Napoli ci si dedichi al “dolce far niente”?

4 commenti

  1. Penso che l’episodio accaduto in pizzeria sia normale, per una società che purtroppo è dedita più a “spettegolare” sul male anziché parlare sui pregi di una città o di una persona. Purtroppo l’intelligenza è un dono che pochi hanno. Per quanto mi riguarda, posso dire, spero con intelligenza, che Napoli è una città fantastica, alla quale benevolmente invidio molti aspetti che mancano allla mia amata Roma.
    Un caro saluto.
    Roberto

    • Grazie, caro Roberto. Anche Roma è una città fantastica e lo è anche quella dell’episodio in trattoria. Ma non penso si tratti di intelligenza, quanto di un bisogno psicologico di avere qualcuno a sud… i Tedeschi, per esempio, sparlano degli Italiani che sono più a sud di loro.. Ma, come non mi stancherò di ripetere con la parola e con lo scritto, “la civiltà sale dal Sud”. Quindi è provato che Artieri aveva ragione quando diceva che la maldicenza degli Italiani verso Napoli deriva da un complesso di inferiorità. E possiamo dire lo stesso per Tedeschi, Francesi, Inglesi e compagnia, che dall’Italia hanno ricevuto la civiltà, gli faccia o no piacere ammetterlo. Ma scriverò ancor su questo, sperando in qualche riscontro anche polemico da parte dei nostri fratelli “Nordisti”.

  2. Sì è vero, caro Italo, l’autoironia ci contraddistingue, il non prenderci troppo sul serio, pronti però ad impegnarci con ingegno e operosità, ma senza “avidità”.

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