Un’immagine del Bambino Gesù, opera di mio padre Vincenzo, spinge Guido e me in una conversazione sui “massimi sistemi”, al cospetto del panorama dei Campi Flegrei.
Tra le opere di mio padre, Vincenzo Sarcone, ce n’è una in particolare a cui spesso rivolgo il pensiero, e sempre con commozione: un’immagine del Bambino Gesù, realizzata in terracotta policroma per un convento di suore di clausura. Ero molto piccolo, quando la lavorò, poi, a causa della sua stessa destinazione, non ho mai più potuto rivederla.
Ne conservo però la foto che, fortunanatamente, ne fu fatta prima della consegna, evidentemente nel laboratorio di San Gregorio Armeno: infatti, il cuscino su cui è deposto il Bambino poggia su una normale sedia (non si vede, ma deve essere una classica sedia “impagliata” dell’epoca).
Ogni tanto vado a riguardare la foto. Credo che così debba essere rappresentato il Bambino Gesù: nella sua fragilità di bimbo, ma anche nella sua maestà divina. Un bambino che ha bisogno di tutto, mentre è Lui che dà tutto, nell’atto stesso di levare la mano nel gesto benedicente.
La sublime contraddizione ci affascina, nel fissare lo sguardo sull’Autore della Vita, la cui stessa vita è continuamente esposta al bisogno e al pericolo.
Sì, credo che mio padre fosse davvero ispirato quando realizzava queste immagini del Divino. Non basta l’abilità tecnica, quando si vuole mostrare agli uomini un bagliore del cielo. Ero accanto a mio padre, quando modellava le sue opere e lui mi spiegava non solo le operazioni dell’arte, ma i contenuti della fede.
Anni dopo, lessi il Paradiso di Dante e, a differenza dei miei compagni (e forse dei miei insegnanti: per colpa di De Sanctis e di Croce, infatti, non sono in molti nella scuola italiana a comprendere il Paradiso), non incontrai alcuna difficoltà.
Fede è sustanzia di cose sperate
ed argumento de le non parventi
La fede, dice Dante sull’esempio di San Paolo Apostolo, è sostanza di quelle realtà oggetto della nostra speranza: rende cioè concreti, quasi un saldo possesso, i contenuti della speranza. E la fede è essa stessa la prova di ciò che con gli occhi del corpo non vediamo.
In un sereno tramonto estivo, sono con Guido a Pozzuoli. Seduti al tavolino di un bar di Via Napoli, gettando di tanto in tanto uno sguardo all’incantevole panorama dei Campi Flegrei, parliamo dei nostri soliti argomenti, sulle cose che hanno occupato la nostra laboriosa esistenza: la trascorsa, ma sempre presente attività d’insegnanti, la filosofia greca, l’ultimo libro letto (Stoner, di John Williams), e, naturalmente, il presepe.
Per caso, ho con me la foto del Bambino Gesù di mio padre. Naturalmente, Guido già la conosceva da tempo, ma ho voluto ugualmente mostrargliela. L’ha commentata dicendo che questa immagine trasmette l’idea della positività dell’esistenza.
In effetti, siamo stati sempre d’accordo che chi fa il presepe, con questa azione stessa, esprime la fiducia nella vita e nella sua positività, di qualunque tipo sia poi la vita che la fortuna gli permette di condurre. Per questo, accade spesso di incontrare persone che, pur non essendo religiose nel senso comune del termine, fanno il presepe per un sentimento di religiosità interiore che coincide con la fiducia nella vita.
La positività dell’esistenza: in altre parole, la vita in sé è bene, anche se poi la vita reale di ognuno è costellata di avversità, di dolori, di miserie.
E così, nella pacata luce del tramonto flegreo, la discussione si avvia su sentieri inattesi.
Il rapporto genitori-figli è venuto spontaneamente fuori. Un rapporto che oggi non è più quello che eravamo abituati a pensare nella nostra gioventù. Non crediamo affatto che fosse un rapporto idilliaco, tutto rose e fiori. Molte cose erano senza dubbio sbagliate, eppure, nel fondo vi era la convinzione che venire al mondo fosse senz’altro un bene.
Ho ricordato una citazione di Cicerone, secondo cui il padre, nei confronti del figlio, ha sempre ragione: anche quando ha torto marcio? Anche quando ha torto marcio.
Per il semplice motivo che il padre ha messo al mondo il figlio, gli ha dato la vita.
A fondamento di questo modo di vedere, cui, fino ad alcuni decenni fa, nessuno avrebbe osato contraddire, sta il celebre principio di Parmenide che l’essere è, e non potrebbe non essere, il non essere non è e non potrebbe essere. Non è uno scioglilingua, ma l’intuizione costitutiva della filosofia occidentale.
Il corollario è che l’essere è il bene, il non essere è il male.
Se l’essere è il bene, ne consegue che il genitore, mettendo al mondo il figlio, si rende creditore nei suoi riguardi e ha diritto alla sua perenne gratitudine, avendogli fatto il più bel dono possibile.
Ma che succede se a questa visione, diciamola per comodità “parmenidea”, ne subentra un’altra, secondo cui il venire al mondo è in sé un male? Il nostro Leopardi, che non è solo un grande poeta (e questo tutti lo sanno), ma anche un grande filosofo (e questo non è affatto risaputo), nella sua incessante meditazione sulla vita, giunge alla tremenda conclusione che l’essere è male. L’unico bene consisterebbe nel non essere.
Se così fosse, il genitore, mettendo al mondo un figlio, si renderebbe colpevole di avergli sottratto l’unico bene possibile, quello del non essere. Ben lontano, quindi, dal potere pretendere dal figlio gratitudine, il genitore si rende responsabile, quasi colpevole, nei suoi confronti. E se usasse, per ottenere obbedienza dal figlio, il vecchio “ricatto”: “Ma io ti ho messo al mondo”, si sentirebbe rispondere: “E chi te l’ha chiesto?”
Naturalmente, queste conclusioni, cui Guido ed io giungiamo nel corso della discussione, non sono affatto coscienti nella collettività. Ma molte, troppe volte nella nostra attività di insegnanti, abbiamo avuto la riprova che per la maggior parte i genitori si comportano come se si sentissero realmente colpevoli nei confronti dei figli. Che cos’altro può significare la difesa ad oltranza dei figli, anche di fronte all’evidente disimpegno, alla cattiva educazione, fino ad episodi che si possono definire francamente criminosi?
Anche i mezzi di comunicazione di massa ci mostrano genitori pronti a difendere i figli che agiscono da veri e propri criminali. Non si chiede più indulgenza in cambio della promessa di un ravvedimento, si chiede che il crimine non sia giudicato tale: “Si è trattato di uno scherzo”, “Hanno arrestato mio figlio per una cosa banale”: magari la “cosa banale” è la ragazza stuprata o il ragazzo seviziato.
La rinuncia ad educare i figli è il segno di questa cattiva coscienza dei padri di oggi.
E sempre più si diffonde il sentimento che la vita sia cosa di poco pregio.
Guido ed io sappiamo di non potere fare molto, ma siamo convinti che, finché ci saranno dei padri che faranno il presepe per i loro figli, non tutto è perduto.
Diamo ancora uno sguardo al panorama flegreo, consideriamo ancora l’immagine del Bambino Gesù di mio padre, poi ripongo la foto. Ci alziamo, apprestandoci al rientro.
Non ce lo diciamo, ma sappiamo che ognuno di noi sta pensando a come farà il presepe, quest’anno.
Sì, non c’è dubbio è un’immagine del Bambino Gesù di rara bellezza, ma quale fu la sua destinazione?
La vostra chiacchierata poi mi conforta soprattutto nelle battute finali: “finché ci saranno dei padri… non tutto è perduto”.
Un caro saluto
Mariano
Il Bambino fu commissionato e poi acquistato dalle Suore di un convento che si trovava nell’emiciclo di Poggioreale a Napoli. Credo che non sia mai stato neanche esposto in pubblico, perché erano di stretta clausura. In quel convento l’unico maschio ad entrare, come in tanti altri conventi, era proprio mio padre, per il suo mestiere. Figurati che a volte le suore non volevano lasciare entrare neanche me sebbene avessi non più di cinque anni: perchè ero maschio! Ora quel convento non c’è più e l’edificio è abbandonato e diroccato Peccato, perché in esso si conservava anche una bella statua della “Madonna dell’Eucarestia”, sempre di mio padre, di cui ho la foto e che farò conoscere quanto prima.