Il ciabattino, in napoletano “solachianiello”, è uno dei mestieri che possono considerarsi scomparsi. Ad uno di questi umili lavoratori, nel quartiere Sanità, è legato un bellissimo ricordo: l’apparizione del Volto, secondo la definizione di un filosofo contemporaneo.
Perché “fare il presepe”? Tra i tanti motivi, che già ti ho presentato su queste pagine, per coltivare e portare innanzi questa bellissima tradizione, oggi ne aggiungo un altro: il presepe è un mezzo efficacissimo anche per mantenere viva la memoria di persone e avvenimenti che ebbero per noi una importanza particolare. Anche di animali, se è per questo. Per esempio, puoi mettere in qualche punto del presepe, in modo che sia ben visibile, la figurina di un gattino o di un cane, come ricordo della bestiola che ti fu cara e che lasciò un piccolo (o grande) vuoto nella tua vita: nello spirito di San Francesco, cui tanto deve la tradizione del presepe, come ho scritto qui, non ci si deve affatto vergognare di avere amato una cane o un gatto, quasi fosse stata una persona di famiglia.
Il presepe è vita: vita presente che guarda al passato per continuare a credere nel futuro e per trovare la forza di continuare a costruirlo. Per questo, ho raccomandato, credo più di una volta, di non confondere l’attività di “fare il presepe” con il modellismo, per quanto questo possa rivestire un carattere di nobiltà.
Il presepe, se lo intendi nel suo continuo farsi, può diventare il centro di aggregazione per i ricordi che non vuoi perdere, perché perdere la memoria è una delle tragedie più gravi che possano capitare ad una persona: per capirlo, ti basta pensare alla sensazione di pena e di stizza che provi, quando, per quanti sforzi fai, non riesci a richiamare alla mente qualcosa, sebbene insignificante.
Ho già scritto qui come gli artigiani del presepe tengano vivo il ricordo di mestieri, usanze, oggetti ormai scomparsi. Perché, come ho già detto talvolta, citando il vecchio sciamano pellerossa del film Quando le leggende muoiono, “è giusto che cambi: non è giusto che si dimentichi”.
Tra i mestieri scomparsi, di cui Napoli, come ogni altra città, era ricca, e che, con il loro numero provano come sia ingiusta la fama che identifica la vita dei Napoletani con “il dolce far niente”, c’era quello del ciabattino.
Che cos’è il ciabattino lo dice la parola stessa: un umile lavoratore che ripara le “ciabatte”, non proprio, dunque, un “calzolaio”. In napoletano il termine corrispondente a ciabattino è solachianiello, colui il cui compito è di “risuolare” le “pianelle”. Ce n’è nel libro del De Bourcard una bella immagine, il cui disegno è a firma di F. Palizzi: la didascalia reca il termine napoletano diviso nelle sue componenti sola-chianiello, in rispetto dell’etimologia (ricorda che in napoletano il suono chi- è corrispondente al latino pl- e all’italiano pi-; “planus”, “piano”, “chiano”).
Il ciabattino non fa strettamente parte dei personaggi che ho definito come essenziali sul presepe popolare: fa comunque parte del “paesaggio” della città di Napoli.
Sul mio presepe la figurina che ti presento, e che è probabile opera dei primi anni del Maestro Del Giudice, sta a ricordare un episodio che, apparentemente insignificante, ha rivestito per me un’importanza particolare perché comprendessi il senso della nostra umbratile esistenza.
Ero giovane, a quell’epoca, e sottoponevo gli amici e le amiche a lunghe e senz’altro faticose passeggiate alla scoperta della nostra città. Di questo, qualcuno mi è rimasto grato, qualche altro (o altra) non so.
Quella volta passeggiavo con una ragazza per il quartiere Sanità, a mostrarle i monumenti e le chiese, soprattutto la splendida basilica, dedicata alla Vergine Maria e che sorge sulle catacombe di S. Gaudioso, della quale già ti ho parlato qui. Lei portava le scarpe con i tacchi, certamente non adatte ai miei tours de force, e infatti, poco dopo il “Ponte della Sanità”, un tacco saltò via, rendendo difficoltoso proseguire il cammino.
Mi rivolsi ad una donna che faceva da portiera in un palazzo e le chiesi se vi fosse nei pressi un calzolaio. “Cercate nu solachianiello? ‘nce ne sta uno proprio dinto a ‘stu palazzo, ‘o primme piano”.
Puntualmente guidati dai gesti della donna, salimmo le scale, io e la ragazza zoppicante sull’unico piede calzato, e individuammo uno sgabuzzino, in cui, dietro il deschetto, un vispo vecchietto era intento al suo lavoro.
Gli feci presente l’urgenza della riparazione e il cortese solachianiello non si fece pregare per riparare in quattro e quattr’otto il danno alla scarpa della mia accompagnatrice. Riconoscente, gli chiesi quanto gli dovevo. Con una scrollatina di spalle, mi disse, accennando un sorriso (vedeva che eravamo poco più che due ragazzi): “Rateme chello ca vulite (datemi ciò che volete)”.
Gli porsi una banconota da cinquecento lire (all’epoca poteva essere l’equivalente di cinque euro odierni). Mi guardò con un sorriso in cui si fondevano umiltà e un pizzico di ironia e disse (ma quelli che gli ridevano erano soprattutto gli occhi): “No, è troppo”. Nonostante la mia insistenza (cercavo di esprimere la gratitudine per avere reso possibile il prosieguo della passeggiata) non volle accettare che cinquanta lire.
Capisco bene che questo episodio può apparirti di poco conto, eppure, in quel sorriso umile, nel lampo degli occhi in cui si fondevano umana modestia e ironica comprensione, colsi il riflesso di un’anima immortale. Un bagliore di luce metafisica.
Anni ed anni dopo, in un filosofo francese di origine ebraica, Emmanuel Lévinas, avrei letto della rivelazione contenuta nell’incontro con il Volto di Altri, e ne avrei compreso il senso ricordando il ciabattino nel quartiere Sanità.
A lui dedicai la figurina sul mio presepe: per non dimenticare il momento dell’apparizione del Volto. Che è il Volto di Dio rivelantesi nel volto di un uomo.
Avevo sempre avvertito, ma in quel momento lo seppi con assoluta certezza, che l’interiorità di un uomo, per quanto povero, malandato, meschino possa essere agli occhi degli altri, è sempre più importante della esteriorità di qualunque altro uomo, per quanto ricco, forte potente e invidiabile possa apparire agli occhi degli altri. Che è poi la lezione che mi impartì mio padre negli otto anni che mi fu concesso di essere al suo fianco.
Un mezzo per rinnovare questa sorpresa è per me quello di acquistare un “ciabattino” quando lo vedo in una bottega di San Gregorio Armeno.
Pochi giorni fa, nella bottega di Fulvio Forte, ho trovato questa figurina, che mi è piaciuta, per l’atteggiamento, per la notazione dei particolari, per esempio la suola staccatasi dalla tomaia, “a bocca di coccodrillo”, ed anche per una certa somiglianza con il ciabattino della illustrazione del De Bourcard, prova che la tradizione lavora, come memoria poetica, nell’attività degli artigiani del presepe.
E tu, hai qualche avvenimento piccolo o grande da ricordare sul tuo presepe? Puoi cogliere l’occasione, perché, ove tu non te ne fossi accorto, è arrivato il momento di “fare il presepe”. Dunque, al lavoro.
il presepe è la sacra rappresentazione dell’Evento. Nel presepe napoletano viene colta l’occasione per rappresentare la vita quotidiana, non disgiunta dal Divino. Sarcone ne coglie l’anima, e ci invita alla riflessione. L’articolo l’ho letto a tappe, mi staccavo per ricordare i miei “solachianielli”. Abbiamo bisogno di ricordare, nei nostri ricordi persone care sopravvivono, è il luogo dell’immortalità. L’amico Italo ci mette in guardia dalle facili generalizzazioni. Quanta nobiltà nell’umile ciabattino, inchinato a risuolare una consunta scarpa, che di strada ne aveva fatta.
“Luogo dell’immortalità”. Non si poteva dire meglio.Grazie, Guido.
Grazie; sono molto soddisfatto di questo risultato. Ma non hai anche tu un personaggio da proporci perché diventi anche per noi essenziale? Pure in questo risiede la magia del presepe.
Dopo questa storia così appassionante, caro Italo, acquisterò un “ciabattino” e nel nostro presepe sarà promosso a personaggio essenziale.
Grazie Italo, per la tua bella pagina di napoletanità verace. A proposito, suonerebbe meglio “rateme chell ca vulite”; si potrebbe, poi, aggiungere al significato etimologico, riguardo al solachianiello, o al ciabattino, il fatto che si tratti di un termine onomatopeico, poiché la parola sembra evocare il battito particolare che il ciabattino produce sulla suola.
Hai ragione: “chillo”, in napoletano, è maschile. Il neutro è “chello” (naturalmente, la “o” finale, necessaria nella scrittura, è nella pronuncia reale molto sfumata, che quasi non si sente). Correggo subito. Al valore onomatopeico della parola “ciabattino” non avevo fatto caso. Grazie.