venerdì , 24 Gennaio 2025
calabritto

Calabritto, un paese come un presepe

A Calabritto, in Irpinia, nacque, in una famiglia molto povera, Vincenzo Sarcone. Anche dopo la quasi totale distruzione dell’antico abitato, per il terremoto del 1980, gli anziani del paese ancora ricordavano e parlavano di colui che essi consideravano il “loro” scultore.

La parola presepe (o presepio) indica, correntemente, quei manufatti artigianali raffiguranti i paesaggi che fanno da sfondo alla nascita di Gesù e designa anche la rappresentazione della Natività stessa.

D’altra parte, quando un paesaggio naturale attira la nostra ammirazione, con un paesello che si arrampica su per il fianco di un monte, o talvolta ne corona la cima, ci viene spontaneo dire che “sembra proprio un presepe”.

Così, appunto, si presentava alla vista Calabritto, il paese del “biancospino”, prima che il disastroso terremoto del 1980, che ebbe l’epicentro in Irpinia e funestò gran parte della Campania, lo distruggesse quasi del tutto.

Paese di Calabritto

Quello che si vede nella fotografia, scattata agli inizi degli anni Cinquanta, alle spalle dei due personaggi ritratti, è il paese di Calabritto, abbarbicato ad un costone montano e dominato, come tutti i paesi, dalla mole della Chiesa Madre. Nel terremoto del 1980 fu proprio il costone a franare: ora, vi è una voragine, al posto del paese, che è stato invece ricostruito più a valle.

Nonostante la gravità del disastro, gli abitanti s’impegnano a conservare le proprie memorie, ma il fascino dell’antico abitato è perduto per sempre. Un’idea della sua bellezza  può essere resa da una mostra fotografica permanente che è ospitata in un ambiente del municipio: poco prima dell’evento disastroso, un visitatore straniero aveva fotografato la cittadina nei minimi particolari e dopo il terremoto, con una sensibilità davvero ammirevole, aveva fatto avere le riproduzioni fotografiche all’amministrazione comunale. Una piccola consolazione in un’enorme disgrazia.

Un’altra testimonianza è costituita da un film, I due volti dell’Irpinia, che, alla fine degli anni Settanta, girò mio cugino Michele Schiavino, regista e critico cinematografico, per testimoniare la persistenza delle antiche tradizioni pur in presenza della ricerca del nuovo e dell’attuazione del progresso. Nel riprendere puntualmente la festa della Madonna della Neve, che si svolge tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, fece naturalmente opera  di documentazione dei luoghi e delle strutture cittadine di Calabritto.

Ti ho presentato in breve il paese da cui mosse mio padre per venire a Napoli ad esercitare l’arte della scultura.

Non era ricca di beni materiali, la famiglia di mio nonno, tutt’altro; era forse una delle piú povere del paese; con sei figli maschi e una femminuccia, nonno Alfonso aveva il suo  daffare per tirarli sú alla meglio.

Tra i racconti che ho udito  narrare uno ce n’è, che fa capire la povertà di beni di fortuna e la ricchezza dei sentimenti di un’epoca.

Una ricca famiglia si era offerta di adottare uno dei bambini, in cambio di una generosa somma di denaro. Sarebbe stata la fortuna del bambino adottato e, insieme, un po’ di benessere per tutti gli altri; la tentazione per nonno Alfonso, se pur vi fu, durò ben poco: guardò i figli, li considerò uno per uno, ed ognuno accarezzò: questa è la femminuccia, manco a parlarne; questo mi sta sempre attaccato alla falda della giacca: non si può; quest’altro poi non fa che chiamarmi “papà”, e così per ognuno dei  sette figli.

Alla fine nonno Alfonso decise che dove mangiavano in sei potevano mangiare anche in sette, o anche digiunare in sette, com’era il caso più frequente. Ma si restava insieme. Fin da piccolo ho saputo di dovere essere grato (tutti noi suoi discendenti siamo grati) a nonno Alfonso per la sua scelta onesta e coraggiosa, che conservò l’integrità della famiglia.

Alcuni anni fa, dopo una quarantennale assenza, feci ritorno al paese d’origine di mio padre e di mia madre. Unico di tutta la famiglia, io sono nato a Napoli e le vicende della vita mi impedirono per lunghissimo tempo di tenere i contatti con i luoghi e la gente che rappresentano quelle radici di cui sono stato sempre orgoglioso.

Quando gli anziani di Calabritto, quelli che nella loro gioventù avevano conosciuto mio padre, seppero che ero il figlio del “loro” scultore, mi si fecero intorno a pormi un mucchio di domande: volevano sapere soprattutto se avevo seguito le orme paterne, se camminavo anch’io sulla via dell’arte. No, purtroppo (confessai con amarezza, con un po’ di vergogna e di rimorso, quasi), era tutt’altra la strada che avevo percorso. Al massimo, quello che sapevo fare era il presepe. Furono molto delicati, nel dissimulare la delusione.

Poi diedero libero sfogo ai ricordi. Uno di loro mi raccontò di quella volta, tanti e tanti anni prima, quando mio padre, ancora giovane, aveva terminato la statua di Gesù deposto dalla Croce: il Venerdì Santo, quando la statua fu “inaugurata”, aveva seguito la processione a piedi scalzi, dietro il Cristo, non più suo, ora che la benedizione del sacerdote lo aveva sottratto allo spazio quotidiano e consegnato alla sfera del sacro.

Cristo-deposto-croce-Vincenzo-Sarcone

L’ammirazione, come al solito, genera le leggende: un altro mi disse che mio padre, per dipingere il sangue delle ferite del Cristo si era aperta una vena della gamba. Un modo veramente simbolico per esprimere la meraviglia dinanzi alla “verità” di quel corpo abbandonato nell’oblio della morte e anche per raffigurare alla mente profana i sacrifici e il travaglio che all’artista era costata quell’opera.

Era questo che intendevo quando, nel mio libro sul presepe, il Sogno di Benino, scrissi, a proposito del lavoro dell’artista:

Oh! nulla di vero conosce chi non ha mai contemplato un seguace dell’arte smarrirsi nel sogno di ripetere i gesti dell’Eterno Alchimista

Ricordavo tutte le volte che, accanto a mio padre, lo avevo guardato pensoso riflettere su come operare perché dalla materia che le sue mani trattavano trasparisse nella quotidianità degli uomini un raggio di luce dell’Eterno.

E tu, hai qualche interesse all’arte? Ti sei mai interrogato sul senso del fare artistico?

8 commenti

  1. Storie meravigliose: una famiglia povera, ma davvero tanto ricca; il tessuto dei ricordi e quello squarcio di luce riflessa che investe l’artista… che gioia nel leggerti, grazie ancora caro Italo.
    Mariano

    • Mi fa piacere che le mie “storie” ti piacciano. Non ho inventato nulla. Fanno parte della tradizione della mia famiglia. Chi le narrava, lo faceva sempre con orgoglio. La povertà non è una vergogna: se mai, la povertà di alcuni dovrebbe essere un’onta per chi ha troppo. E non si ha troppo se non rubando. Idea personale, che si fonda su una personale interpretazione del Vangelo. Grazie a te, Mariano, per l’entusiasmo con cui continui a leggermi.

      • Come nel caso della Sua famiglia, la povertà, un tempo, univa…..ora purtroppo l’esatto contrario.
        Roberto

        • Ancora oggi la povertà unisce. Davanti alle porte delle chiese vedo che quelle che fanno l’elemosina sono persone modeste. I danarosi non mollano una monetina.

          • Ha ragione anche Lei. Mi rifaccio ad un estratto di una Sua frase tratta dall’articolo “Uno scultore a S. Gregorio Armeno: ” la solidarietà c’è solo tra i poveri”.
            A presto
            Roberto

  2. Caro Italo,
    ho ripensato diverse volte alle tue parole “E non si ha troppo se non rubando. Idea personale, che si fonda su una personale interpretazione del Vangelo.” Lo so che l’argomento “sconfina”, però te ne sarei grato se potessi approfondire questa tua interpretazione, frutto sicuramente di studio e di preghiera.
    Ciao
    Mariano

    • Caro Mariano, adesso mi metti davvero nei guai. Il fatto è che la mia affermazione trova la sua radice in una certa concezione della vita e del lavoro. Se non si condividono i principi di base, è naturale che le mie parole appaiano viziate da populismo e qualunquismo. Ma ci si può chiedere se, vedendo persone che hanno lavorato seriamente e duramente per una vita fare la fila alle porte della Caritas, non sia davvero il caso di allargare il concetto di “ladro” ai responsabili della attuale avvilente situazione. Se io pago le tasse prima ancora di ricevere lo stipendio o la pensione, mentre chi affitta la casa a prezzi esorbitanti si rifiuta di fare la ricevuta regolare, ebbene credo che questi sia un “ladro”. Se un operaio, lavorando otto ore al giorno guadagna qualcosa come mille euro, allora, qualunque professione si svolga, poiché la giornata è di ventiquattro ore, chi guadagna più di tremila, massimo quattromilacinquecento euro ha rubato tutto il di più. Qualcosa come il “plusvalore” di Karl Marx. Ma per accettare queste idee occorre avere una certa concezione del lavoro, che rispetti ed ammiri tutti i lavori e non distingua fra le varie forme, poiché ognuno dà o dovrebbe dare secondo le proprie capacità e ricevere secondo la proprie necessità. Ancora prima di leggere Marx, mi ero fatto queste idee leggendo la pagina del Vangelo con l’episodio di Zaccheo e la parabola del padrone della vigna. Ma ho scritto troppo, per una risposta sul blog. Grazie dell’affetto con cui continui a leggermi.

  3. Condivido pienamente, grazie.
    Mariano

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