Il cacciatore, sul presepe popolare napoletano, a prima vista anacronistico e sconcertante, è tuttavia un personaggio fortemente significativo, in collegamento con il pescatore e la lavandaia, con i quali costituisce una triade inscindibile.
Tra i personaggi fondamentali, “irrinunciabili”, del presepe popolare napoletano, uno in particolare attira l’attenzione e non manca di suscitare una certa perplessità, che sicuramente, qualche volta, avrai provata anche tu, nel vedere la figura del “cacciatore”, con l’arma in spalla, mentre prende accuratamente la mira.
Si va dalle ingenue figure, in cui il fucile ha una forma grossolana, ad altre in cui l’arma è meglio delineata. Qualche artigiano giunge fino alla raffinatezza della piuma sul cappello. A me piace particolarmente questo “pezzo”, tratto da uno stampo abbastanza antico, in cui l’accuratezza arriva fino alla rappresentazione del tascapane appeso alla spalla.
Naturalmente, il “cacciatore” sconcerta, innanzitutto, per l’anacronismo di quel fucile che, al tempo in cui Gesù nacque, era di là da venire. La domanda più frequente, avanzata spesso con tono imbarazzato, è infatti sempre la stessa: “Ma c’era già il fucile all’epoca di Gesù?”
Eppure, qualcosa ci dice che non è questa la domanda vera che si vorrebbe porre, dal momento che si accettano serenamente altri anacronismi: sono anacronistici già gli abiti di tutti i “pastori” che popolano il presepe: a rigore, gli unici che vestono secondo la “moda” del tempo (o quella che si pensa essere stata la moda del tempo) sono la Madonna e San Giuseppe. Tutti gli altri sono abbigliati secondo il costume del Settecento o dell’Ottocento.
In realtà, la domanda vera, quella che giace in fondo all’inconscio di ognuno, è posta da coloro che sono più vicini alle radici della vita, i bambini: “Ma il cacciatore spara all’uccellino?” chiedono con tono accorato, commiserando l’innocente animaletto preso di mira dal cacciatore. Infatti, chi allestisce il presepe in linea con la tradizione, non manca mai di collocare sul ramo di un alberello secco un uccellino tenuto “in volo” su un fil di ferro.
Ciò che sconcerta è, dunque, la presenza di un personaggio dedito alla violenza, nel più sereno scenario di pace che si conosca, nel presepe, che è la celebrazione della nascita di Gesù, salutata dai cori degli Angeli con il canto “pace in terra agli uomini di buona volontà”. Sconcerta, cioè, la presenza di un apportatore di morte, mentre nella grotta si rinnova il miracolo della vita. Voglio dire che il “cacciatore” avrebbe probabilmente creato lo stesso sconcerto e lo stesso disappunto, soprattutto nei bambini, se avesse mirato all’uccellino con l’arco e la freccia.
Che ci fa, dunque, questo violento, sul presepe popolare, unico armato fra i personaggi?
Per spiegare la presenza del cacciatore sul presepe, Gennaro Matino, del cui libro ho parlato qui, collega questa figura a quella del pescatore, riconoscendo in questi due personaggi una coppia inscindibile. Il cacciatore rappresenterebbe, nell’interpretazione del dotto sacerdote, lo status sociale del ricco, il pescatore quello del povero.
Il presepe popolare contemplerebbe così la compresenza dei diversi strati sociali, senza però giustificare la disuguaglianza tra gli uomini: soltanto, ne prende realisticamente atto.
Come ho scritto, l’interpretazione è interessante, coerente con gli interessi, con la personalità, con l’attività dell’autore, ma anche con la sua lettura complessiva, in chiave unitaria, del presepe.
Da parte mia, credo però che si possa andare oltre.
All’inizio, anch’io, quando, in gioventù, diedi inizio alle mie ricerche sul presepe, inteso come un tutto fortemente simbolico ed unitario (ne ho parlato qui), avevo pensato al collegamento “cacciatore-pescatore”.
Ma partivo da un altro presupposto: dal punto di vista simbolico, la “coppia”, il “due”, è qualcosa di negativo, perché la dualità rappresenta il “conflitto”, l’ “opposizione”, la “discordia”, senza la risoluzione in una superiore unità.
Da un punto di vista “simbolico”, “tradizionale”, la positività è costituita dal “tre”, che è la risoluzione in una superiore unità, in cui si pacificano i conflitti.
Nell’anima dell’uomo ogni termine genera il suo contrario e la lotta degli opposti si traspone sul piano metafisico.
Ma, al di là del velo di Maia, gli opposti coincidono.
Ma solo se l’uno si fa tre e il tre si fa uno.
Questo scrivevo, nel 1985, nella mia prima opera stampata, In limine, che è il libro cui sono maggiormente legato, perché è quello nel quale concludevo la fase più febbrile della ricerca: dalle ipotesi in esso formulate prendevo un nuovo avvio.
Il cacciatore, dunque, nella mia interpretazione si oppone al pescatore, ma l’opposizione deve essere risolta in una superiore unità. Si doveva, quindi, trovare il personaggio che potesse rappresentare la conciliazione degli opposti. Lo ritrovai, in seguito, nella lavandaia.
Per il momento, c’era un altro particolare che mi spingeva ad approfondire: quello che colpisce non è tanto l’elemento “violenza”, contenuto nel cacciatore, dal momento che, spesso, sul presepe popolare è raffigurata la “strage degli Innocenti” che, tuttavia, non desta altrettanto sconcerto.
L’elemento fondamentale che spiega il significato del cacciatore è dato da quell’uccellino, trattenuto sull’albero dall’esile filo di ferro.
Lo stesso uccellino che avevo tante volte notato sulle tombe medievali delle chiese angioine, in cui l’anima del defunto è simbolizzata dall’uccello stretto nella mano del Bambino Gesù, seduto in grembo alla madre. Cioè, il defunto affida la sua anima nelle mani di Gesù, perché non cada, invece, nelle grinfie dell’avversario.
Un esempio, bellissimo, si trova in Santa Chiara, nel sarcofago del Merlotto. Te ne posso purtroppo mostrare solo un mio pessimo disegno, ma che almeno ti può rendere l’idea.
Se l’uccello simbolizza dunque l’anima dell’uomo, comincia allora a delinearsi il significato profondo del cacciatore e si spiega perché, a livello inconscio, la sua presenza desti uno stupore misto a disagio.
Il significato si chiarì ancora di più a confronto con il pescatore, al quale si contrappone, e con la risoluzione di questa contrapposizione nella lavandaia.
Tre personaggi umili, del popolo, quali si potevano incontrare nella vita di tutti i giorni, sulle colline che circondano Napoli, a Santa Lucia o a Chiaia, nei vicoli della vecchia città, ma che assumevano un valore diverso, se si consideravano da un altro punto di vista: dal punto di vista di Benino, che, nel suo “sogno” li incontra, provando, volta a volta, paura, sollievo, serenità.
Il “viaggio in sogno”, costituito dal presepe, è appena iniziato. Sei pronto e disposto a proseguirlo, insieme a Benino, fino al suo fine?
Complimenti, caro Italo, non ti sei fermato ad una prima interpretazione, indubbiamente interessante quella di don Matino, ma l’ipotesi da te formulata, a conclusione sicuramente di una piretica ricerca, è mirabile e ti chiedo di guidarci in questo sogno, “perch’io guardassi suso” e per quei tre stati d’animo di Benino: paura sollievo e serenità, anelito quest’ultimo di ogni vivente.
In effetti, ero giunto alle mie conclusioni fin dal 1989, anno della pubblicazione del “Sogno”. Grazie dei tuoi commenti. E scusami se non ho ancora mantenuto la promessa circa il “fondaco” e Giuseppe Sammartino. Ma, come vedi, gli argomenti sono molti e mi si affollano intorno, chiedendomi che io li faccia passare dalla potenza all’atto. Un po’ di pazienza, anche per loro.
Ammetto che anch’io ero tra quelli che non capivano un cacciatore armato di fucile, preferendo una versione più storicamente accurata con un arco o piuttosto con una lancia. Ma ora compreso meglio il significato di questo come di altre “ingenuità” ed anacronismi, sono in grado di apprezzarli ed amarli.
La ringrazio, signor Francesco, dell’attenzione con cui mi segue. Storicamente parlando, il cacciatore è armato di fucile, soprattutto perché è il personaggio più recente sulla scena presepiale: risale probabilmente all’Ottocento.