Il Buon pastore dà la vita per le sue pecore, non le considera cibo per la sua fame. Lo “scartoccio” delle pecorelle dà l’avvio a una serie di riflessioni sul nostro rapporto con gli animali.
Quest’anno, lo “scartoccio” mi induce a riflettere sull’espressione Buon Pastore, che compare nel Vangelo e quindi nell’arte, con tutte le considerazioni che ne derivano.
All’avvicinarsi del Natale, compiamo i rituali gesti che preludiano alla preparazione del presepe. Vi abbiamo pensato per mesi ed ora è il momento di mettere in atto le nostre idee, magari sviluppando anche degli spunti che ci ha suggerito la visita a qualche presepe interessante.
Naturalmente, la prima operazione cui diamo avvio è quella dello scartoccio, che non avviene mai senza un po’ di commozione, come se rivedessimo degli amici da cui siamo stati per un po’ di tempo separati.
Quest’anno, mi capita di iniziare lo scartoccio dagli animali. Le pecorelle, innanzitutto. Ispirano sempre un senso di tenerezza, con il bianco del loro vello e l’espressione mansueta. Alcune sono di terracotta, altre di legno. A un presepe, senza le pecorelle, verrebbe meno un po’ di poesia.
Prendi per esempio questa scena di un presepe mio di qualche decennio fa: immaginalo senza le pecore e ti accorgerai di quanto sembrerebbe manchevole.
Presepe Sarcone 1992.
O quest’altra, appartenente a un altro presepe, in cui la pecorella sembra alzare la testa verso il suo padrone.
Presepe Sarcone 1993.
Questa immagine mi riporta alla mente il passo del Vangelo, nel quale Gesù dice: “Io sono il buon pastore: io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me“. Celebre è, infatti, l’immagine di Gesù, come buon pastore, che reca sulle spalle una pecora: quella pecora che si era smarrita e di cui il pastore è andato alla ricerca, abbandonando, per il momento, le altre novantanove. Credo che non ci sia nessuno che, almeno una volta nella vita, non si sia imbattuto nella statua dell’arte paleocristiana che celebra Cristo come Buon Pastore:
Per questo, sul mio presepe, non può mancare il pastore che sulle spalle reca una pecora, avviandosi alla grotta; per quanto piccolo sia il presepe, anche se posso ambientarvi solo pochi personaggi, a questo non posso rinunciare.
Presepe Sarcone 2005
Il pastore con la pecora in quel contesto è il simbolo dell’Uomo-Dio che è appena nato e che un giorno proclamerà se stesso Buon Pastore, quello cioè che dà la vita per le sue pecore: non il mercenario che le abbandona nel momento del pericolo: è tutto il Vangelo che devi tenere presente, se vuoi capire veramente, e soprattutto vivere, il presepe.
Presepe Sarcone 1995.
Le guardo, le mie pecorelle, una per una: certo, nella rappresentazione di questo umile animale, gli artigiani possono mostrare la loro capacità di inventiva. Ammira, per esempio, questa, che procede a capo alto, ma senza alterigia: i fiocchi di lana sono ottenuti con accorti colpi di stecca nella creta a creare un movimentato effetto di luci e di ombre.
Quest’altra ha l’atteggiamento dimesso, con le orecchie basse, con lo sguardo mansueto che ben rappresenta quella condizione di umiltà che siamo soliti collegare a questo animale, tanto da averne fatto il simbolo.
Di quest’altra, in legno, mi piace l’atteggiamento curioso, di sfregarsi dietro l’orecchio con la zampa posteriore : non è raro trovare movimenti tipici degli animali, colti dalla attenta osservazione messa in opera dagli artigiani.
La pecorella addormentata o comunque distesa ha pur essa una grande importanza, posta accanto a Benino, il pastorello che, all’inizio del percorso presepiale, dorme e sogna la nascita del Bimbo Divino.
Un’altra pecorella distesa, meglio ancora se è un agnello, io la pongo ai piedi della mangiatoia in cui è posto il Bambino Gesù, l’Agnello di Dio, che su di sé prende i peccati del mondo, secondo le parole con cui il Battista salutò Colui del quale era precursore (che “prende su di sé”, non che “toglie”, come è stato erroneamente tradotto nel passaggio dalla Messa in lingua latina a quella in lingua italiana).
Quest’anno, però, mentre procedo allo scartoccio e libero una per una le pecorelle dal loro involucro, mi torna insistentemente alla memoria una conversazione avvenuta qualche mese fa, nel mio bar preferito. Non solo insistentemente, ma anche tormentosamente, come nella coscienza di una colpa nei riguardi dei modelli in carne ed ossa delle mie dilette figurine di terracotta e di legno.
Sul finire del mese di agosto, un’amica, Erica Di Palma, che era stata mia alunna al liceo e che oggi svolge la professione di architetto a Parigi, trovandosi a Napoli, mi invita a un incontro, che avviene, come dicevo, nel bar che mi fa da taverna, da studio e da ufficio.
Si parla di vari argomenti, non solo dei ricordi di scuola, ma anche della situazione italiana, europea e mondiale. In genere le nostre opinioni concordano. A un certo punto, sulla via del ritorno, Erica mi pone bruscamente una domanda alla quale non era affatto preparato:
“Che cosa ne pensa, del vegetarianismo?
Preso alla sprovvista, getto lì una risposta che, ancora ne arrossisco, non è affatto in linea, né con i miei pensieri, né con i miei sentimenti: rispondo che la ritengo una stupidaggine, poiché, se un leone mangia una gazzella, l’uomo può ben mangiarsi una bistecca.
Ma Erica ha buon gioco, nel mostrarmi la debolezza della mia posizione: “Ma, professore – mi dice – non vorrà mettersi al livello di un leone?”
E pensare che sono stato proprio io, commentando Sallustio, a insegnarle che l’uomo deve innalzarsi al di sopra delle bestie quae natura prona atque ventri oboedientia finxit (che la natura ha creato chine verso terra e obbedienti solo al richiamo della fame).
Da quel momento, mi sono invischiato in una serie di contraddizioni, arrampicandomi sugli specchi nel tentativo di giustificare l’ingiustificabile, cioè la risposta affrettata e per nulla intelligente che le avevo data.
Forse la motivazione sta non solo nella vecchiaia che ottunde l’intelletto, ma anche nel fatto che stavamo avvicinandoci al luogo dove dovevamo separarci.
In realtà, quello che volevo dirle era ben altro, per il quale non c’era forse il tempo. Perché è vero che il vegetarianismo non è praticabile nell’attuale società, ma è anche vero che esso si pone come una esigenza di civiltà: avrei dovuto dire che è un’utopia, in una società in cui gli uomini sono abituati a sbranarsi a vicenda.
Avrei dovuto dirle che occorre un altro modello di uomo, che è lontano dall’imporsi alla convinzione comune, in una società che altro non fa che spingere alla competitività, all’aggressività, alla concorrenza, nell’ansia spasmodica di superare gli altri a qualunque costo, anche della corruzione della disonestà dell’omicidio mascherato.
La pietà per i nostri amici animali è destinata a restare un’utopia, lì dove una congrega di palazzinari che costruiscono con la sabbia brindano al terremoto, in cui vedono solo un’occasione di loschi affari, complici amici politicanti: “cane non mangia cane”, dice un vecchio proverbio, ma l’uomo “mangia” l’altro uomo, in più d’un senso.
Verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare, ed anche l’uccisione di un solo animale sarà considerata un grave delitto.
Questa previsione di Leonardo da Vinci è ripetuta di frequente, ma ha poche possibilità di realizzarsi, se proiettiamo nel futuro le attuali condizioni dell’umanità.
Ma, indipendentemente dalle godurie del palato, può l’uomo fare a meno della dieta carnea, per la sua salute? A questa domanda, potrebbe dare una risposta sicura solo la scienza, ove potessimo fidarci fino in fondo degli scienziati, spesso sul “libro paga” di governi e multinazionali. Certo, è difficile fidarsi fino in fondo, se si guarda all’ignobile spettacolo di quegli “uomini di scienza” che brindarono al risultato della bomba atomica.
Viene da rimpiangere gli antichi alchimisti, per i quali la vera scienza non poteva essere disgiunta dallo spirito etico.
Raccontavo ad Antonino del mio rimorso per avere dato quella risposta. Antonino, te ne ho già parlato qui, è un pozzo senza fondo di sensibilità e conoscenza: dopo un po’ che parlavamo dell’argomento, mi offrì, come al solito, un’indicazione preziosa che voglio condividere con te: un pittore napoletano, Vincenzo Caprile, ha rappresentato in alcuni quadri, che sono davvero impressionanti, quella vera e propria strage degli innocenti, che è la mattanza di capretti ed agnelli in occasioni del Natale e della Pasqua. Uno di essi è ambientato nella “piazza Mercato” di Napoli: non credo che si possa evitare una stretta al cuore, nel vedere i corpi delle povere bestie pendere, appese per i piedi, dal carretto del macellatore.
Che ne dici? A prescindere dalla questione di “vegetarianismo sì, vegetarianismo no”, non sarebbe il caso di cominciare a pensare, nel disporre le pecorelle e gli altri animali sul nostro presepe, che si possa evitare la “strage degli innocenti” a Natale e a Pasqua”? In modo che l’appressarsi di queste festività sia una festa non solo per il nostro palato, ma anche per i nostri animali?
E concludo qui, l’articolo, non certo la questione, sulla quale dovrò ritornare, anche con il tuo aiuto.
Non sono mai stato vegetariano anche se non amo particolarmente la carne, ma confesso che ogni volta che mi soffermo a considerare il problema non mi sento a posto con la coscienza al pensiero di mangiare carne. Per superare l’imbarazzo mi dico che condivido a livello etico il pensiero dei vegetariani, ma poi a livello fisico lo trovo non completamente realizzabile, temo però sia solo una posizione di comodo dettata dalla pigrizia, probabilmente per poter esprimersi a riguardo bisognerebbe almeno provare.
Riguardo alle pecore sul Presepe le associo agli uomini che seguono vari Maestri e Profeti (i diversi pastori) ma non tutti sono “Buoni”, c’è chi le abbandona, chi le fa smarrire, o semplicemente chi le allontana dal Bambino anzichè avvicinarle. Per questo trovo particolarmente significante collocare vari greggi di pecore sulle diverse tappe del percorso presepiale. Mi piacerebbe però conoscerne la Sua interpretazione a livello simbolico.
Essere vegetariani, caro signor Francesco, non è per nulla facile, né sotto il profilo economico, né sotto quello culturale. Andare in una trattoria o in ristorante ed evitare piatti a base di carne è, come ho spesso sperimentato, molto difficile. Si pensi poi a tutti gli interessi economici, con cifre da capogiro. E di fronte al denaro, motivi etici ed ideali vanno a farsi benedire. Ma la civiltà è una lenta conquista. Per questo, come Lei dice giustamente, si dovrebbe almeno provare. Una piccola nota personale: amo il vino, il dono di Dioniso che il Signore Gesù adoperò per il suo primo ed ultimo dei miracoli nella sua dimora terrena. Ebbene, il vino, sulla carne, mi dà un cattivo sapore, mentre sui prodotti della terra si esalta. Vorrà pur dire qualcosa. Grazie della Sua cortesissima attenzione.
Veramente un bellissimo articolo, caro Italo, e nel condividere alcune questioni mi soffermerò però su quell’utopico “progetto” del Nazareno: all’inizio sicuramente giudicato folle e destinato al fallimento dai suoi stessi discepoli, ma poi…
Sono sicuro che questa mattanza si potrebbe evitare e non solo nei periodi di Natale e Pasqua.
Un caro saluto
Come al solito, caro Mariano, con i miei articoli pongo più domande di quante risposte riesco fornire. Io posso fare benissimo a meno della carne, ma se avessi un bambino da allevare? Potrei tirarlo su soltanto con una dieta vegetariana? Sinceramente non lo so; per questo faccio continuamente appello alla responsabilità della scienza, o meglio degli scienziati. Anche questa è questione di civiltà. Grazie sempre per l’affettuosa attenzione che dedichi da anni alle mie pagine.