Uno strano personaggio alato del presepe di Michele Clima mi induce a ricordare figure di mendicanti incontrati per le strade non solo di Napoli, che mi diedero l’impressione come di angeli per le strade della città.
Mi piace, di tanto in tanto, tornare alle immagini del presepe di Michele Clima, l’avvocato foggiano dal cuore napoletano, presepe così ricco di spunti e suggestioni, che una sola visita non basta a raccoglierli tutti.
Un’immagine in particolare attira la mia attenzione e mi suscita una forte curiosità. Generalmente, faccio a meno di chiedere a un artista che cosa voglia dire la sua opera o che cosa voglia significare quel particolare curioso: uno dei miei irrinunciabili principi ermeneutici è che non tocca all’operatore spiegare ciò che ha operato, ma tocca a chi guarda interpretare. Non si può essere al contempo artefici e interpreti della propria opera.
In base a questo principio, non ho mai chiesto a Michele le ragioni, i motivi che lo hanno indotto a certe scelte, o a introdurre certi personaggi. Per esempio, di un certo personaggio dotato di ali che si aggira tra gli altri con estrema naturalezza, in contesti che variano da un presepe all’altro.
Lo si vede, per esempio, in una scena del corteo dei Re Magi, avvicinarsi a un nano sontuosamente abbigliato, che al fianco ha un pugnale troppo grande per lui e che reca una scimmietta alla catena. Forse il nanetto sarà il “buffone” di corte”? Lo strano personaggio alato tende verso di lui le mani con le palme rivolte in giù: il gesto sacrale della “imposizione delle mani”?
Ma poi lo ritrovo sulla soglia di una chiesetta diroccata, evidentemente sconsacrata, in atto di posare le mani sul libro di un viandante che forse stava per entrare nell’edificio. In questa immagine si può notare che il personaggio alato è scalzo, segno di umile condizione. Ricevo immediatamente l’impressione che si tratti di un angelo che ha momentaneamente assunto le sembianze di un mendico.
L’impressione si fa più forte se considero l’intero contesto. In alto, sul fastigio del sacro edificio diroccato e sconsacrato, sta ritto il “diavolo”, il nostro “avversario”, nel fiero atteggiamento del possesso: accanto a lui, il caprone, suo indivisibile segno. Che ci fa lassù il diavolo? Ebbene, ricordate il monito dell’apostolo Pietro (1Pietro, 5-8)?
Fratres, sobrii estote et vigilate, quia adversarius vester, diabolus, quasi leo rugiens circuit vos, quaerens quem devoret: cui resistite, fortes in fide: fratelli, mantenetevi nella sobrietà e state attenti, perché il vostro avversario, il diavolo, come leone rabbioso, si aggira intorno a voi, cercando chi divorare: ma, forti nella fede, opponetegli resistenza…
Da una finestra, un gatto, l’animale della dea egizia Iside, poi l’animale delle streghe, fa capolino da una finestra, con occhi sfavillanti. Chiaramente il luogo è pericoloso, ma un angelo in sembianze umane sta come “guardiano della soglia” a proteggere i viandanti.
Non so se la mia interpretazione colga nel giusto, ma un altro dei miei principi ermeneutici è che la forza dell’opera d’arte è tale che ad essa appartiene non solo ciò che era nell’intenzione dell’autore, ma anche ciò che l’interprete vede in essa.
A me, quella figuretta che potrebbe passare quasi inosservata, tanto si mimetizza tra gli altri personaggi, riporta alla mente figure di mendicanti che mi si sono fatte incontro una sola volta, per poi sparire come erano apparse.
Ero a Mantova, in una lontana estate degli anni ’80 del secolo scorso. Vagavo senza una meta per le vie della città sacra alle memorie di Virgilio. In una strada delle più eleganti sedeva, a gambe incrociate in un canto del marciapiede, un vecchio mendico col capo coperto da un logoro cappello a larghe tese. Il particolare che mi attirò di più furono i bianchi baffoni che gli davano un aspetto di nobiltà. I passanti passavano indifferenti davanti a lui che non si curava di richiamarne l’attenzione. Naturalmente, deposi nella ciotola il mio tributo dell’umana solidarietà. Il vecchio alzò la testa, mi guardò con negli occhi uno sfavillio ironico e sulla bocca un sorriso di grande benevolenza. Non so descriverlo meglio, ma in quell’attimo capii che cosa intendeva il filosofo Emmanuel Levinas, quando parlava della “rivelazione del volto”. Mi disse “Buona fortuna”… Nei giorni successivi lo cercai, non solo in quella strada, anche in altre, ma non lo incontrai più, per tutto il resto della mia permanenza mantovana.
A Napoli, una sera, all’ora in cui i negozi chiudono, rincasavo, con il cuore un po’ greve di nostalgici pensieri. Mi rivolge la parola un giovane male in arnese e dall’aspetto dimesso. Mi chiese qualche spicciolo. Mentre disperatamente mi frugavo in tutte le tasche per trovare almeno qualche moneta residua (e intanto maledicevo la mia prodigalità, per avere speso tutto ciò che avevo nel corso della giornata), il giovane, con un mesto sorriso di comprensione, quasi di compatimento, mi disse: “Nun fa niente si nun ‘e tenite; sulo ca ve site fermato… ‘a gente nun ve guarda nemmeno (non importa se non li avete; basta che vi siete fermato…)”. La frase era carica della mestizia per l’indifferenza degli uomini, suoi simili, di lui più fortunati eppure insensibili alle miserie altrui… La sera successiva e poi le altre ancora lo cercai, ma non lo rividi mai più.
Sempre a Napoli, una mattina di agosto, fermo al capolinea, attendo l’autobus per recarmi al lavoro. Mi si accosta una donna piccola, minuta, dall’età indefinibile, che mi rivolge la parola. Parla del più e del meno, del caldo, delle strade vuote e solitarie, della gente che va in vacanza. Dal suo cicaleccio imbarazzato, intuisco che vuole richiedermi di qualcosa, ma che non osa e neanche io, per una sorta di pudore, ho il coraggio di affrontare l’argomento. Infine, quando parla di una famiglia che l’aiuta, ma che non tornerà fino alla fine del mese, colgo la palla al balzo per domandarle se ha bisogno di un aiuto. Mi risponde, con modestia: “Se potete”. Ho con me solo una banconota da cinque euro e gliela porgo. Tutta felice di quel regalo, per quanto modesto, esclama: “Grazie, mi avete dato da mangiare per una settimana”.
Restai perplesso: cinque euro le bastavano per una settimana? Mentre l’autobus sopraggiungeva, ancora una volta imprecai contro la mia improvvidenza che mi impediva di darle da vivere per altre due, tre settimane. Anche questa volta, tutte le mattine cercai la donnina dall’età indefinibile, per contribuire ancora alla sua sopravvivenza… e anche questa volta non la rividi più.
Pensando molte volte a questi incontri, che per me hanno dello straordinario, ho finito per convincermi che tra noi, sotto le vesti di mendichi, si aggirano degli Angeli, per vedere se gli uomini ancora sono capaci di misericordia. La “misericordia” è una bellissima parola. Forse non ci hai mai riflettuto: la parola “elemosina” deriva dalla stessa radice greca di quell’altra parola che ripeti quando partecipi a un rito sacro: Kyrie, eleison. La “misericordia” che usiamo con i nostri simili è quella stessa “misericordia” che imploriamo da Dio:
per viscera misericordiae Dei nostri in quibus visitavit nos Oriens ex alto
L’elemosina non è atto di gratuita generosità, ma è un atto di “giustizia”. E così gli Ebrei chiamano l’elemosina: “giustizia”. Nel Medioevo essa era definita “la parte di Dio”. Nel fare l’elemosina riconosciamo che nulla abbiamo per merito nostro, ma che tutto ci viene da Lui.
“Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli Scribi e dei Farisei…”
Caro Michele, non so se ho colto nel segno, nell’interpretazione dei personaggi del tuo presepe, ma a me interessa che, visitando un presepe, non si guardino solo delle belle immagini, ma che si trovino gli spunti per riflettere e migliorare. E il tuo presepe, di spunti, ne offre davvero tanti…
Condivido pienamente, caro Italo, che tocca a chi guarda l’interpretazione di un’opera e, addirittura, mi è capitato che l’autore resti sorpreso da spunti e suggestioni che lui stesso non aveva minimamente contemplato.
Caro Italo, effettivamente non abbiamo mai parlato dei personaggi alati del mio Presepio. Concordo anch’io con te sul principio ermeneutico che vuole nell’osservatore il primo interprete autentico dell’opera. Ritengo che l’autore ci metta del suo meglio lasciando libero spazio al fruitore dell’opera. Il regista cinematografico iraniano Abbas Kiarostami si diceva sempre entusiasta di vedere la reazione del pubblico che lo avrebbe aiutato a capire meglio quello che lui stesso aveva “detto” con il film. Io aggiungo che tra l’autore e il fruitore l’incontro nella verità sta nel divino. In particolare, caro Italo, quello che sapientemente hai notato è uno dei “pastori” a cui tengo maggiormente per unicità di fattura, è uno dei due angeli scugnizzo disegnati da me e realizzati dalla Maestra Anna Bisogno, e per simbologia, in quanto si tratta di angeli terrestri (non volano questi esseri anche se potrebbero farlo!) dell’annuncio e dell’invito alla Grotta. Si aggirano nella rappresentazione alla ricerca dell’uomo come potrebbe suggerire un Sant’Alfonso dei Liguori Pescatore di Anime. È un’idea “rubata” al Presepio Tirolese (ero al Museo di Innsbruck) ma volutamente reinterpretata nei laceri indumenti dei Lazzari scalzi.
N. B. L’orecchino del personaggio è di tungsteno, per resistere alle alte temperature del forno.